L’inchiesta che sto conducendo, basata su interviste alle operatrici e gli operatori culturali milanesi, oggi ci fa incontrare Ferdinando Bruni. È impossibile rendere merito alla professione di una persona raccontandola in poche righe, Ferdinando Bruni ha fatto storia (e la fa tutt’ora) nella compagnia dell’Elfo con il suo personale e poliedrico percorso artistico: è attore, regista, pittore, traduttore, produttore e direttore artistico (con Elio De Capitani) di una delle Compagnie e dei Teatri (Teatro Elfo Puccini) più popolari d’Italia.

Non mi dilungo, per non togliere tempo a chi legge, ma ci tengo a dire che Ferdinando è una delle prime persone nel mondo del teatro che ho contattato quando sono arrivato a Milano, 15 anni fa, e conservo ancora il ricordo della gentilezza e la disponibilità nei confronti di un ragazzo che era all’inizio del suo percorso di lavoro, e che Ferdinando Bruni ha trattato con rispetto e sensibilità; da quell’incontro ho capito che Milano era la destinazione che cercavo (dopo aver lasciato Roma), perché il mio lavoro, qui, aveva la sua giusta rispettabilità, grazie a professionisti come Ferdinando.

Ferdinando Bruni, cosa significa per una comunità non poter avere un servizio pubblico come il teatro?
Credo che questo lungo, anomalo e, speriamo fra poco, concluso periodo di chiusura (ma non di assenza) abbia evidenziato, se mai ce ne fosse stato bisogno, il ruolo insostituibile del teatro come collante sociale, luogo privilegiato in cui un “pubblico” diventa comunità. Naturalmente sto parlando del teatro come lo intendo io, (noi) un luogo cioè che accoglie e che include, ma che chiede a chi lo frequenta la disponibilità a una messa in discussione dei propri parametri di giudizio, la curiosità verso una visione “altra” della realtà, l’accettazione della complessità del reale. La nostra merce di scambio, il guadagno che questa disponibilità, questa apertura all’ascolto e alla visione garantiscono si misura in emozioni che passano dal cuore alla mente, sono, come dice Peter Brook, le parole che non si sentono altrove.

Cosa manca in Italia affichè la cultura venga considerata un bene primario di ogni cittadino/a?
C’è uno scollamento fra la percezione di chi vive la cultura in prima persona e la narrazione di chi avrebbe il compito di valorizzare l’enorme patrimonio culturale e artistico che è un dono miracoloso per chi nasce nel nostro paese. Dal nostro osservatorio teatrale, per esempio, possiamo testimoniare di un interesse vivissimo nei confronti della cultura, non solo intesa come lascito, ma vissuta come strumento e guida per viaggiare nel contemporaneo. I numeri di chi frequenta teatri, mostre, festival e musei sono lì a confermarcelo. Eppure, non solo da parte della politica, ma anche dei giornali e più in generale dei media, c’è un atteggiamento di diffidenza nei confronti della complessità e della profondità, diffidenza che trasforma la cultura in spettacolo e l’arte in turismo. In questo modo il grande interesse e l’irrinunciabile bisogno di chi vive la cultura come parte fondamentale della propria vita viene derubricata come fenomeno di nicchia, patrimonio di un’élite.

Photo by Laila Pozzo

Ad un artista come te, ricominciare a calcare il palcoscenico dopo questa chiusura, cosa comporta, cosa senti quando sei in scena?
Direi una sensazione di calore e di essere nel “posto giusto” per il mio corpo e per la mia anima. Come in un abbraccio con una persona amata che non si è vista per tanto tempo. E così, dopo l’abbraccio, la sensazione di riprendere un discorso che si era interrotto, piano piano reimparando i gesti, le abitudini di questa storia d’amore per farla tornare a essere la struttura portante della mia vita di tutti i giorni.

Cosa credi che bisognerebbe fare per far tornare il pubblico in sala?
Io credo che il pubblico, la comunità che frequenta il nostro teatro, non veda l’ora di tornare in sala, di riannodare un discorso interrotto due volte, di riprendere una consuetudine felice. Da parte nostra, sul fronte organizzativo, c’è la massima attenzione che tutto questo possa avvenire nella massima sicurezza e con la massima serenità. In ogni caso, durante le brevi riaperture della scorsa stagione abbiamo potuto verificare concretamente questa voglia di teatro e tutto il calore di questo desiderio di rincontrarci.

Cosa vorresti lasciare ai tuoi figli per il loro futuro?
Se avessi dei figli temo che mi sentirei molto in colpa per il mondo che gli dovrei lasciare. Vorrei poter fare qualcosa di concreto, ma al di là dei piccoli gesti quotidiani, che pure sono importanti, mi sento spesso impotente e inadeguato di fronte alle ferite che sfregiano il nostro pianeta, la nostra casa comune. Poi penso che probabilmente fare bene il mio lavoro è l’unica cosa concreta che mi è dato di fare, che contribuire nella misura delle mie capacità a mantenere vivo questo lavoro antichissimo, bello e fragilissimo è il mio impegno, e spero sarà il mio lascito per chi verrà dopo di me.

Cosa vorresti vedere a teatro adesso che abbiamo riaperto?
Il teatro è tante cose, ha tante facce. Ci sono tanti teatri e al tempo stesso un solo grande teatro. C’è un teatro che cerca di esprimere il contemporaneo, il nostro tempo, le nostre inquietudini, le nostre ferite, le nostre speranze. C’è un teatro che fa dialogare il nostro tempo con le grandi voci, i grandi pensieri di chi ci ha preceduto: i giganti dalle cui spalle guardiamo l’orizzonte del nostro futuro. C’è un teatro che esprime emozioni molto intime, molto fragili e un teatro che si assume la responsabilità di essere epico e grandioso. C’è un teatro che ci emoziona e ci commuove e un teatro che usa l’ironia come strumento per raccontare il mondo. Vorrei che presto tutte queste voci riprendessero a farsi sentire, a tessere insieme questa specie di grande arazzo che chiamiamo teatro.

Quand’è l’ultima volta che ti sei commosso?
Pensare alla persona che amo quando non c’è (e adesso non c’è) mi commuove sempre. Poi quando c’è è un altro discorso.

Questo tempo di chiusura ci ha fatto capire che del teatro se ne può fare a meno! Quanto è vera questa affermazione?
Totalmente falsa. Come la battuta cinica che è circolata durante il lockdown: il teatro manca solo a chi lo fa. Durante questo difficilissimo anno e mezzo sono state davvero tante le dimostrazioni di affetto e solidarietà che ci sono arrivate a smentire quelle affermazioni. Solidarietà anche molto concreta, dato che la rinuncia al rimborso di biglietti o di abbonamenti e una rete di donazioni, grandi e piccole, ci ha aiutato a chiudere in pareggio un bilancio in grave pericolo.

Quand’è che hai sorriso l’ultima volta?
Per fortuna mi capita spesso di sorridere, a volte anche da solo (ci sarà da preoccuparsi?) Quindi non ricordo. Anzi anche adesso, mentre scrivo sto sorridendo. Sì, c’è da preoccuparsi.

Chi dovrebbero essere le persone che gestiranno i teatri di domani?
Gli artisti. Gli artisti. Gli artisti. Gli artisti. I teatri devono tornare a essere case d’arte, luoghi dove un artista abbia il tempo di elaborare con pazienza e tranquillità il suo linguaggio e il suo discorso. Il resto, tutto il contorno, dovrebbe venire di conseguenza. Un teatro e un centro culturale sono due cose molto diverse. Un teatro può forse essere “anche” un centro culturale, ma, a mio avviso, dovrebbe essere prima di tutto una bottega artistica.

Per puntare sui giovani artisti, ci vuole più amore o più coraggio?
Amore, certo. Anche lucidità. E umiltà. Sapere che dai giovani artisti si può anche imparare. Ricordarsi che nessuno è eterno e che se si ama davvero il teatro si deve lavorare per il suo futuro, per la sua vita dopo di noi. Credo che il coraggio non c’entri.

Quando hai abbracciato, l’ultima volta, una persona che ami?
Purtroppo, sono già passati quattro giorni.

Cosa pensa Ferdinado Bruni quando è seduto in platea, poco prima di vedere uno spettacolo?
Credo di vivere la stessa sensazione di quando si riceve un regalo e si deve aprire il pacchetto, a volte anche una sensazione simile a quando si scende da un treno o da un aereo arrivando in un paese nuovo, mai visitato prima.

Per fare il lavoro che hai fatto in questi anni, hai avuto bisogno di più amore o di coraggio? Amore (e tanta pazienza).

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