Nel 1930 Virginia Woolf scriveva a Ethel Smyth:

“Non potrei mantenere il senso di unità e di coerenza e di tutto ciò che in me forma il desiderio di scrivere (…) se non mi immergessi dentro Londra, tra l’ora del tè e quella di cena, camminando, camminando…”.

Non a caso, la sua Mrs Dalloway è definita dall’americana Lauren Elkin, autrice di diversi saggi sul tema, la più grande flâneuse nella letteratura del Novecento.

Il termine flâneuse, coniato dalla stessa Elkin, è la declinazione femminile della parola flâneur e indica chi passeggia per il piacere di farlo e chi vaga oziosamente per le vie cittadine godendo del paesaggio. Essere una flâneuse non è facile, scrive Elkin (non a caso la declinazione femminile della parola germoglia tanto recentemente): “le donne non hanno mai avuto la totale libertà di camminare per la città.” Il motivo? Le città sono disegnate da uomini per gli uomini, ed è così da millenni.  

Lo conferma Leslie Kern, direttrice del programma di Studi sulle donne e sul genere alla Mount Allison University, in Canada, nel suo saggio La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, pubblicato in Italia da Treccani con la traduzione di Natascia Pennacchietti:

Le donne vivono ancora la città con una serie di barriere – fisiche, sociali, economiche e simboliche – che modellano la loro quotidianità attraverso dinamiche che sono profondamente di genere. Molte di queste barriere sono invisibili agli uomini, perché raramente rientrano nelle loro esperienze”.

Kern lo mette nero su bianco:

“Le nostre città sono l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato”.

Soddisfano i bisogni di maschi cis-abili e tengono poco o nulla in considerazione i bisogni di tutti gli altri simulando il binarismo della casa e del focolare. Qualche esempio? La mancanza dei fasciatoi nei bagni degli uomini o nelle aree comuni dei bagni degli esercizi pubblici, la scarsa manutenzione di scale e marciapiedi che diventano un ostacolo ai passeggini (per non parlare delle carrozzine), le strade poco illuminate, le fermate degli autobus desolate (la questione è ben approfondita dalla giornalista e attivista britannica Caroline Criado-Perez nel suo libro Invisibili, Einaudi, 2020).

La città delle donne e
la città degli uomini

Esisterebbero, dunque, due diverse dimensioni urbane, con rispettive possibilità esperienziali e percettive: quella di chi rispecchia gli standard dominanti e quella di chi non vi rientra, in primis le donne, ancora per la maggior parte le principali responsabili dei lavori domestici e della cura dei figli e degli anziani.  

Il problema sta a monte: le decisioni sullo sviluppo urbano vengono ancora prese principalmente da uomini e da persone appartenenti a categorie privilegiate e dominanti, e questa visione si ripercuote direttamente sul grado di inclusività delle strutture degli spazi cittadini in cui ci muoviamo, portando alla reiterazione delle disparità di genere.

Oggi architette e urbaniste femministe, geografe urbane, contribuiscono con le loro riflessioni ad avanzamenti del sapere con una forte connotazione di genere, indicazioni operative e gestionali, ipotesi di riorganizzazione dei servizi rivolti ad un’utenza femminile.

Qualcosa sta già accadendo: a Vienna, dove la pianificazione urbana si fonda sulla strategia del gender mainstreaming allo scopo di garantire equità nella strutturazione e nella fruizione della città, si registra l’esperienza di Aspern Seestadt, un quartiere viennese con 20.000 abitanti progettato dando priorità alle esigenze delle donne.

In Namibia è la Shack Dwellers Federation a costruire una rete di aiuto alle persone che vivono nei quartieri più poveri favorendo l’inclusione abitativa, economica e sociale di chi è spinto ai margini, con la partecipazione attiva delle donne.

Molte attiviste sono impegnate nella pratica di mappare le città: dall’app W-her, che invita le donne a esplorare le città come mappatrici urbane e segnalare i luoghi in cui si sentono più sicure di muoversi, anche sole, al lavoro delle GeoChicas, che vuole aumentare la presenza femminile dei collettivi di Open Street Map, il software di mappe open source.

Si pensa anche a superare la sola prospettiva di genere e includere nello sguardo gli altri sistemi di oppressione: razzismo, abilismo, capitalismo, colonialismo, omobitransfobia.

I passi da fare sono ancora tanti, ma la città del futuro è questa: intersezionale e femminista.

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