Scritto nel ’91, il testo è stato tradotto e portato sulle scene in tanti paesi d’Europa e d’America per approdare infine sugli schermi cinematografici ad opera di Roman Polanski nel ’95. Nel ’98 Elio De Capitani lo ha messo in scena per il Teatro dell’Elfo di Milano, con Cristina Crippa protagonista, oggi torna al Campania Teatro Festival (questo il nuovo nome del Napoli Teatro Festival). Abbiamo incontrato uno dei suoi protagonisti: Enzo Curcurù.

Rewriters si occupa di riscritture: parlaci di come si aggiorna nel tempo il tuo rapporto con De Capitani.
Lavoro al teatro dell’Elfo da circa 10 anni e mi ritengo davvero fortunato perché è il luogo che mi corrisponde di più in assoluto sia nel modo di fare teatro che nel viverlo.
In quasi 50 anni di vita, questo gruppo è riuscito a creare una realtà unica in Italia perché ha saputo rappresentare con coraggio il “teatro d’arte contemporanea” seguendo, ascoltando e interpretando le metamorfosi della società  e di conseguenza del linguaggio teatrale. Elio incarna a pieno questa natura: è un artista puro con lo sguardo bambino, si sorprende, si commuove, si sporca le mani cercando di andare sempre più a fondo e vedere questa predisposizione alla scoperta e alla vita, questo amore per il teatro è ogni volta una carezza al cuore. È un regista che non va per stereotipi sia nella visione del testo che degli attori, che ti permette di sbagliare e che non pretende mai un risultato immediato perché solo in questo modo si raggiungono i traguardi migliori, con la stratificazione del lavoro e degli errori. Sono felice perché in questa parentesi napoletana abbiamo avuto l’occasione di conoscerci un po’ meglio oltre al lavoro e, tra una pizza e una sfogliatella, ho scoperto un amico. 

In che senso il personaggio di Enzo Curcurù ridisegna i confini della relazione tra vittime e carnefici? Gerardo Escobar è molto più coinvolto di quanto si pensi: lui è vivo grazie al fatto che la moglie non ha mai fatto il suo nome quando veniva torturata, il suo agire è compromesso tra il senso di colpa, l’amore per Paulina e lo stato di diritto che cerca disperatamente di salvaguardare. In continua lotta fra se stesso e il suo senso di giustizia si trova in una posizione davvero scomoda essendo un futuro membro della della commissione presidenziale che dovrà indagare sui crimini commessi dal passato regime. È il fautore  del processo di guarigione del paese che ha proprio il compito di “ridisegnare i confini della giustizia” ma all’interno delle proprie mura domestiche si ritrova a mediare maldestramente questa difficile trattativa perennemente in bilico tra ragion di stato e legge individuale.

Che assonanze vi hanno permesso di lavorare sui parallelismi tra Cile di Pinochet e nostra contemporaneità?
All’inizio dello spettacolo una frase proiettata sul fondale recita “in un paese del sud, forse il Cile” All’interno del testo non viene mai citato il Cile e non ci sono quasi mai riferimenti a fatti o persone specifici.  Ma conoscendo l’autore e la sua storia è inevitabile pensare a quel periodo storico in quel paese. Si parla di soprusi e di violenze che attraverso il teatro acquisiscono un aspetto molto più carnale e atroce sublimando la  pura cronaca con le parole e le azioni di esseri umani che raccontano storie di altri esseri umani. Ma le dittature continuano ad esserci e continuano a mietere vittime in tutto il mondo potremmo quindi ambientare lo spettacolo, adattandolo, anche oggi, in Siria o in Corea del nord o in diversi Stati africani. Cambiano i colori, i costumi e gli ambienti ma l’orrore è lo stesso.

Approfittiamo di questa occasione per chiedere ad Enzo Curcurù come la pandemia lo abbia ridefinito come attore, se lo ha fatto.
Non so se mi abbia ridefinito ma sicuramente mi ha costretto a fare i conti con me stesso. La costrizione di quel periodo mi ha permesso di stringere la mano a tutto quello che contengo… Ho lottato con alcuni aspetti del mio carattere che non ho mai sopportato, ho imparato cose nuove, mettendo in discussione quelle vecchie, e mi sono  seriamente messo in contatto con tutta la fragilità che mi caratterizza, nutrendola ancora di più e rendendola un valore aggiunto… mi ha fatto anche capire che nulla è scontato e che essere sani e aver la possibilità di lavorare e magari di fare il lavoro che ami è un lusso vero. Insomma mi sono guardato seriamente allo specchio e dopo un lungo colloquio ho capito molte più cose di me: chi sono e dove mi piacerebbe andare, in questo senso (solo in questo) è stata una benedizione.

Una breve descrizione dell’aria che si respira questo anno al Campania teatro festival. Vivere Napoli ogni volta è un’esperienza unica… è abitata da un popolo straordinario, di artisti e di persone accoglienti con tutte le sue contraddizioni. Sono venuto nel 2009 sempre per il Campania Teatro Festival con “Romeo e Giulietta”, due anni fa con “Afghanistan” e diverse altre volte in tournée. Quest’anno ho voluto prendere casa nei quartieri spagnoli, nel cuore pulsante della città, e volente o nolente  ci si immerge in quel clima di festa e di canzoni che ormai fischietto senza accorgermene. Napoli con il Campania Teatro Festival reagisce a questo periodo cosi complicato con 164 eventi in diversi luoghi bellissimi coinvolgendo migliaia di persone, una sfida che sta già vincendo con energia, entusiasmo e serate sold out. Direi quindi che si respira l’aria giusta per una grande ripartenza.

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