John Lane viene dal sud degli Stati Uniti. Nel 2020 dichiarava di essere in attesa della pensione dopo un lungo periodo passato al Wofford College a insegnare English and Environmental studies, una disciplina che è in sostanza l’ossatura teorica dalla quale partono anche i miei articoli su questo blog.

Oggi parliamo di poesia e Antropocene. E lo facciamo con Lorenzo Mari, perché per tradurre un poeta ci vuole un altro poeta: Anthropocene Blues, una raccolta di John Lane del 2017, è stata resa in italiano proprio da Mari. La traduzione è al momento inedita, ma alcuni stralci significativi si possono cogliere da questo intervento sulla rivista di Matteo Meschiari, un pilastro degli environmental studies applicati alla letteratura in italiano (ricordiamo i pamphlet La grande estinzione e Antropocene fantastico o la raccolta di poesie Finisterre).

Insomma, chi legge in inglese non aspetti tempo. Chi preferisce gustarsi la poesia in ottime traduzioni in italiano, pazienti: ne vale la pena. Inoltre, prima di lanciare l’intervista, mi viene spontaneo un riferimento a Storie di Gea. Leggendo, capirete qual è il legame fra Anthropocene Blues e il mestiere – quindi il blog – di Silvia Peppoloni.

Poeta, saggista, accademico: in Anthropocene Blues John Lane ha scelto di parlare dell’Antropocene non soltanto in prosa, ma anche in poesia. Perché? In quale contesto letterario si inserisce Anthropocene Blues? E perché blues?
Beh, innanzitutto: la produzione narrativa e saggistica intorno all’Antropocene è già sconfinata, perché insistere? E perché la poesia dovrebbe essere esclusa dal novero dei generi possibili, continuando nell’equivoco per il quale poesia dovrebbe esistere in un suo particolare Empireo, lontano da simili questioni? Tra l’altro, quella di John Lane non è una poesia che si occupa dell’attualità – come si potrebbe forse immaginare, constatando una certa ‘Antropocene-mania’, negli ultimi tempi – ma di una trasformazione che, come mostra in modo molto efficace Anthropocene Blues, è legata in origine alla geologia, e dunque a un tempo molto lungo, più lungo di quello di una qualsiasi tradizione poetica.

Ora, questo processo di trasformazione porta con sé un senso melancolico di perdita – rappresentata, nel libro, dalla ricorsività del tema dell’erosione – che ben si coniuga con una delle caratteristiche fondanti del blues. Non è un blues soltanto triste e disperato, però, perché contiene in sé la capacità di cantare un tempo lungo (…che si estende anche dopo di noi, e dunque nel futuro!). D’altronde, l’erosione è soltanto una prima fase della cosiddetta ‘trinità della geologia’: dopo l’erosione, seguono il trasporto e la sedimentazione; l’erosione, dunque, ci parla innanzitutto di quello che sta succedendo ora…

In ogni caso, ho recentemente rivolto la stessa domanda a John Lane che, scherzando, mi ha risposto che un altro genere adatto potrebbe essere il soft rock. Pun intended: la roccia dell’Antropocene ormai è tenera, si sgretola…

Ecco, John Lane dà particolare rilievo alla figura del geologo. Perché? Come si esprime il geologo di Lane?
Il geologo è un personaggio ricorrente, nel libro, e si esprime con un registro che coniuga lessico scientifico – talvolta specialistico, ma non sempre – e una sensibilità letteraria e culturale di ampio respiro. È un geologo-poeta: se vogliamo, può essere un alter ego dell’autore, che è anche professore di English and Environmental Studies al Wofford College, però mantiene anche una certa distanza dalle pastoie del lavoro accademico:

“se fossi un accademico / metterei qui una nota a piè di pagina (grazie Walt Whitman)”,

si legge in uno dei testi che compongono la sequenza intitolata, appunto, ‘Erosione’. La necessità di prendere una certa distanza critica e politica da certi approcci esclusivamente accademici e specialistici – con tutti i loro limiti, ad esempio pratici – è uno dei punti di contatto con l’opera e l’attività di alcuni autori italiani, come Matteo Meschiari, che conosce l’opera di John Lane da molto tempo e ne ha recentemente promosso la pubblicazione di alcuni testi in traduzione italiana sulla rivista online Il problema di Grendel.

Tornando al personaggio del ‘geologo-poeta’, questa figura può dire – sempre nella sequenza ‘Erosione’ – di avere ‘incluso Shelley e Byron nel proprio campo di indagine’ e al tempo stesso occuparsi di altre questioni, che non sono immediatamente collegate al campo della geologia, come quello delle vittime animali della strada (trattato, nel testo omonimo, con alcune tonalità grottesche che indicano un rovescio ironico delle interconnessioni tra umano e non umano normalmente ricercate dalla eco-poetry).

3) why search unless something

is really lost, and what is, that is the

question, begs all

those useless trivia answers,

conundrums, cacophonies

information feeding our brains, fogging the windshield

of what matters

Che cos’è per Lane “what matters”?
Non è facile determinare ‘cosa sia rilevante’: altrimenti la scelta poetica – che è sempre una scelta di parole inevitabili e ineludibili, altrimenti non è poesia – l’avrebbe indicato più chiaramente. Al di là della possibile tautologia, questa vuol essere un’avvertenza anche per chi cerca soluzioni facili e lineari: per dirne una, non è con i comportamenti eco-friendly individuali (ad esempio, con l’imperativo, spesso calato dall’alto, e talvolta poco ragionato e articolato da parte dei singoli individui, del plastic free) che si può mettere mano in modo decisivo a quella che è la disgregazione di tutta un’era geologica come quella definita come ‘Antropocene’. Anche il geologo che compare a più riprese in Anthropocene Blues non fornisce risposte unilaterali e definitive: è rappresentato in una fase di data crunching, dove ‘quello che conta’ è innanzitutto l’osservazione – da orientare, magari, in una direzione diversa da quella prospettata da certo mainstream ecologico o pseudo-tale.

In una scala che sta fra l’ecoansia e lo spiraglio di speranza dove si situa John Lane? Tanto a metà strada quanto, in un certo modo, fuori da questo binarismo, che sembra essere innanzitutto un prodotto collaterale del mainstream al quale accennavo poco fa. L’attenzione e la lucidità dello sguardo, che attiene tanto alla poesia quanto alla geologia, cerca di intervenire in modo più articolato e meno viscerale, pur essendo fondato sempre su una determinata intelligenza emotiva.

Se poi di geologia si sta parlando, come mi ha ricordato l’autore, si può tornare indietro fino a uno dei padri fondatori della scienza, lo scozzese James Hutton (1726-1797), che in Theory of the Earth (1788): scriveva:

“Non ci sono vestigia di un inizio. Non c’è, all’orizzonte, alcuna fine”.

Non dev’essere una riflessione consolatoria, però, bensì un invito a confrontarsi con l’intera tradizione del sapere geologico – parallelamente, all’intera tradizione della poesia moderna (risalendo ai Byron, Shelley e Whitman già citati, per esempio) – che ha recentemente dato alla luce le categorie dell’Antropocene e a trarne indicazioni più utili di quello che il sensazionalismo di una certa marca, o di quella opposta, potrebbe dare.

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