È soltanto un primo passo forse, ma un primo passo importantissimo per porre fine alla giungla di quell’enorme insieme di attività lavorative che sono entrate a far parte della nostra vita quotidiana, quasi prepotentemente, da un po’ di anni: i lavori svolti tramite piattaforme digitali.

Non sono soltanto i cosiddetti rider, ormai li chiamiamo così anche in italiano, ma anche autisti, traduttori on line, codificatori di dati, eccetera eccetera, lavoratori che prestano i propri servizi ai giganti delle piattaforme digitali quasi sempre in una situazione lavorativa contrattuale caotica dove troppo spesso l’autonomia va a braccetto con lo sfruttamento.

Ma ora la Commissione europea ha gettato le basi per dire basta, proponendo un pacchetto di misure con l’obiettivo di migliorare le condizioni di tutti coloro che lavorano mediante piattaforme digitali.

In particolare, la Commissione, il 9 dicembre 2021 ha dato il via ad una Comunicazione e a una proposta di direttiva gettando le basi per future norme globali per un lavoro di qualità mediante piattaforme digitali.

I lavoratori interessati sono davvero tantissimi. Ad oggi lavorano nell’Unione europea tramite il sistema delle piattaforme digitali più di 28 milioni di persone e nel 2025 potranno diventare circa 43 milioni. Le piattaforme interessate, per citarne un paio Deliveroo e Uber, sono circa 500: un universo davvero complesso e globale.

Il problema si pone perché gran parte dei lavoratori offrono i propri servizi inquadrati come se fossero lavoratori autonomi senza vincoli apparenti, quindi senza diritti, il 55% guadagna meno del salario minimo, ma si stima che in realtà almeno 5,5 milioni svolgano un lavoro che potrebbe essere definito a tutti gli effetti come dipendente.

Le implicazioni sono molte anche dal punto di vista della concorrenza. Per esempio, un lavoratore autonomo non può neanche fare accordi con lavoratori della sua categoria per rivendicare comuni diritti senza che ciò implichi un cartello, vietato dall’articolo 101 dei Trattati.

È fuori di dubbio che il sistema delle piattaforme digitali rappresenti una fetta di economia importantissima e offre fortissime potenzialità di occupazione. Tra il 2016 e il 2021 le entrate delle società operanti tramite piattaforme sono aumentate da circa 3 miliardi di euro a circa 14 miliardi. D’altra parte anche gli Stati possono trarre un interessante tornaconto da una regolarizzazione del sistema. La Commissione ha calcolato che ne deriverebbero per gli Stati membri ogni anno tra 1,6 e 4,0 miliardi di euro di contributi previdenziali, un tesoretto interessante per il fragile sistema di welfare.

La Commissione ha quindi definito una serie di criteri: nel caso in cui la piattaforma ne soddisfi almeno due può essere considerata a tutti gli effetti un datore di lavoro ed essere obbligata ad applicare tutte le norme dei diritti sociali e contrattuali dei lavoratori: salario minimo, coperture previdenziali, contrattazione collettiva, tutela della salute, ferie retribuite.

Secondo la proposta di direttiva, la singola piattaforma potrà respingere l’esito della nuova classificazione, ma avrà l’onere della prova di spiegarne le motivazioni.

C’è un altro punto importantissimo delle proposte della Commissione e riguarda la gestione algoritmica dell’organizzazione del lavoro in base alla quale è un sistema automatizzato che stabilisce orari, turni, modalità lavorative: da ora sarà sottoposta ad una maggiore trasparenza e dovrà garantire il monitoraggio umano del rispetto delle condizioni di lavoro che potranno anche essere contestate dal lavoratore.

Ben venga quindi il progresso tecnologico purchè esso sia equo e inclusivo. Non ci sarà Marx a difendere i diritti di questi lavoratori ma la parola ora passa al Parlamento europeo che farà la sua parte.

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