1903 Tomasi di Lampedusa bambino.

1957 Tomasi di Lampedusa morente.

Dentro la storia, dentro una terra arida e forte, assolata e ventosa, poliedrica e ricca, misera e nobile, dominata e fiera, decadente e barocca, fatalista e rassegnata, fascinosa e respingente, crogiuolo di sinestetiche ed evocative contraddizioni.

È storia di terra e mare, la mia terra e il mio mare, la mia isola, prigioniera di un eterno passato: non è un caso che la Sicilia non usi mai il futuro, sostituito dal passato remoto: vinisti o a casa ti muvisti? (verrai o resterai a casa?).
In una sola frase c’è tutta la mia terra: l’ineluttabilità di un futuro che rimane passato e non si muove, perché muovendo si resta immobili, mentre tutto resta com’è perché possa cambiare.

Il romanzo di Simona Lo Iacono L’albatro, sospeso tra storia e fantasia, racconta di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che attraversa le due guerre, di un’infanzia allietata dalla presenza di un bambino umile e riservato, un bambino tutto al contrario: Antonno, alter ego di Giuseppe Tomasi, capace di trasformare in magia l’ordinario, in vocazione l’ignoto e in devozione l’amicizia.

E tutta al contrario è la scrittura del romanzo: un’infanzia magica e straniante raccontata come fosse alba di un futuro ancora da vivere da un Tomasi di Lampedusa morente in una clinica di Roma, spinto dalla moglie Alexandra Wolff di Stomersee detta Licy – donna intraprendente e psicanalista di indubbia fama – a scrivere un diario sul periodo più felice della sua vita.
Una narrazione dai caratteri tipografici ordinari, nitidi e definiti, come fosse realtà, mentre l’io narrante morente usa il corsivo per raccontare il tramonto di una vita e di una terra che si spegne e che attraversa dolori, perdite, due guerre, la prigionia, i fasti di una ricchezza decadente e annientata sotto le bombe, quando anche il palazzo nobiliare palermitano tanto amato dei Lampedusa crolla colpito dall’ennesima bomba durante il II conflitto e nulla rimane di un glorioso passato, se non le macerie da cui ricominciare.

Ricominciare, nell’illusione, prima con il fascismo e dopo con la sua caduta, che in Sicilia tutto cambi, mentre cambiando tutto in realtà continua a restare com’è, tra nuovi accordi e antichi costumi che lasciano la mia terra dentro un’eterna questione meridionale, come Don Fabrizio del Gattopardo e Tomasi di Lampedusa sanno bene.

Dentro il diario di Giuseppe Tomasi, la Palermo dei Florio, borghesia intraprendente, e dell’aristocrazia decadente, a cui lui stesso appartiene, si confonde con la nobiltà polverosa e morente della casa materna di Santa Margherita del Belice, dove ogni estate Tomasi si reca come fa Don Fabrizio Principe di Salina, tra polvere, carrozze e paesaggi assolati, resi indimenticabili nel Gattopardo dalla penna di Tomasi e dalla regia di Visconti.

Il Gattopardo, il romanzo che Giuseppe Tomasi non vedrà pubblicato neanche nel letto di morte, ma solo postumo, lo stesso letto in cui dopo tanti anni ritrova Antonno, il bambino a rovescio, che indossa calze invernali d’estate e camicie al contrario, dice no per dire sì, intaglia legno e lo trasforma in sogni, cammina al contrario e resta quando vuole andare via.

E in un giorno di mare e risate, mentre la madre di Giuseppe Tomasi, Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, recita L’Albatro di Baudelaire in francese per il suo amato figlio, la stessa madre che, come la Sicilia, non lo lascerà mai libero di vivere altrove, Antonno lascerà per sempre il suo atto di fede a Giuseppe Tomasi, prima di svanire com’era arrivato: “Principuzzu, io a vossia ci farò l’Albatro…non lo lascerò mai, a vossia. Con tempu bonu o tempu tintu…Io per vossia, sarò l’albatro”.

Una promessa che diventa universo morale, vocazione e senso, devozione e amore, parole come lupiceddi, poliedriche figure intagliate nel legno da Antonno che trasformano la realtà in meraviglia, che insegnano il valore delle ferite e la forza del sogno.

E Tomasi, con Antonno, rivela con leggiadra forza della mia terra, un ossimoro commovente che è storia e finzione, poesia e racconto, terra e mare, Gattopardo, fiera terragna che afferra con gli artigli il possesso dei suoi beni destinati ad essere perduti, e Albatro, fiera di cielo e mare, capace di volare perché ha le ali al posto degli artigli e la libertà al posto del possesso.

L’albatro, di Simona lo IaconoNeri Pozza Editore

#LamiaSicilia, la Sicilia di Simona Lo Iacono, #letturacreativa da leggere tutta d’un fiato.

Condividi: