Quando lo scienziato politico Yascha Mounk ha pubblicato, nel 2023, il libro The Identity Trap, si è trovato di fronte a reazioni talmente contrastanti da far pensare che esistano libri diversi, mandati dall’editore a persone diverse, al solo scopo di suscitare polemica.

Il Publishers Weekly, pubblicazione di solito sobria, assicurava che i lettori non saranno convinti, liquidando il libro, nelle primissime parole della recensione, come una polemica con argomentazioni povere. Il Washington Post, d’altro canto, dichiarava che Mounk era riuscito a parlare di un argomento difficile meglio di chiunque altro ci avesse provato.

L’ossessione per il tema dell’identità

Ma qual è l’argomento? In poche parole, l’ossessione che abbiamo per il tema dell’identità. Particolarmente forte negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma in crescita anche in Italia, la chiusura su identità personali sempre più rigidamente definite è diventato elemento di scontro tra persone diverse, ed è al centro di polemiche feroci sull’accesso a educazione, risorse economiche, sanitarie, e più in generale, alla partecipazione alla vita pubblica e al diritto a una vita privata.

Che il tema sia di fondamentale importanza è fuori di dubbio. E’ oggettivamente vero che abbiamo avuto per secoli un’unica identità possibile, quella dell’uomo bianco eterosessuale di classe media o superiore. Chiunque altro, nel bene e nel male, esisteva solo in relazione a questo grado zero dell’identità. In fin dei conti la Bibbia insegna che la donna viene da una costola dell’uomo; che ne è un derivato. Il punto di vista neutro, al centro di ogni impresa umana, dal cinema, al design, alla scienza, non era affatto neutro – era il punto di vista di uomini bianchi eterosessuali di classe media o superiore.

Questa situazione ha portato una immensa quantità di danno sia agli individui che alla società. Le conseguenze pratiche sono intuitive: da un punto di vista individuale, a troppe persone sono state negate possibilità che altri davano per scontate, e da un punto di vista sociale, abbiamo sprecato una immensa quantità di potenziali talenti.

Ma come spesso accade, la cura rischia di portare danni nuovi

Se è vero che il punto di vista neutro va messo in discussione, è anche vero che, negli ultimi anni, è stato messo in discussioni in modi poveri, nel discorso pubblico ma anche, purtroppo, in quello accademico. Attenzione: non sto dicendo che siamo andati troppo oltre. Semmai sto dicendo che non siamo andati _abbastanza_ oltre. Non stiamo cambiando la struttura del discorso. E il focus si è sottilmente spostato da un pluralismo autentico, in cui ciascun essere umano dovrebbe portare quello che è, a un moltiplicarsi di identità personali, in cui ingabbiamo gli esseri umani in una rete sempre più fitta di definizioni.

Per capirci: a volte può essere necessario rivendicare con orgoglio parti del proprio essere, se non altro come difesa contro una società che vuole annientarle. Può essere necessario gridare al mondo, io sono una donna, io sono gay, io sono pagano, io sono…

Ma se appropriarsi di queste definizioni è un importante strumento di lotta, non bisogna perdere di vista l’obiettivo di quella lotta. Obiettivo che dovrebbe essere una società in cui le identità contano il meno possibile, in cui tutto quello che conta è la persona, nella sua unicità, nella sua irripetibilità. Vai a letto con chi ti pare. Usa i pronomi che vuoi. Vestiti come preferisci. Il sogno di un mondo in cui l’identità semplicemente non conta granché potrebbe non essere mai raggiunto, ma resta un sogno nobile. Per raggiungerlo, possiamo utilizzare etichette momentanee, identità forti; ma solo finché siamo capaci di superarle.

Perché se non lo facciamo, se ci innamoriamo troppo di una e una sola idea di noi, è così che cadiamo in trappola. Quando iniziamo a credere di essere qualcosa di specifico, diventiamo vulnerabili. Diventiamo un target di vendita (compra anche tu gli adesivi della tua identità! E i libri, e le spille), diventiamo nemici gli uni degli altri, in una guerra tra poveri da cui le peggiori forze al lavoro nel sociale hanno tutto da guadagnare.

Rinunciamo a tutto quello che potremmo essere, in nome di un’immagine che ci piace avere. Le critiche e le lodi al libro di Mounk sono una perfetta immagine del problema – è difficile capire chi sta parlando del libro, e chi sta parlando di se stesso.

Per evitare di cadere nella trappola, non vi dirò cosa ne penso io.

Ma lasciatemi chiudere con una storia. Mounk di recente è stato accusato di stupro da una scrittrice. L’accusa ha nuovamente diviso il pubblico, visto che la persona in questione l’ha lanciata via giornale, senza sporgere denuncia. E quindi, cosa dobbiamo pensarne?

Qualunque sia la risposta che diamo, interroghiamoci: stiamo rispondendo in base alla nostra identità? Se la risposta è sì, forse dovremmo pensare più a fondo, e pensare meglio.

Sull’argomento oltre a consigliarvi il libro The Identity Trap, di Yascha Mounk, aggiungo anche Il Secondo Sesso, di Simone de Beauvoir che affranca la donna dallo status di minore che la obbliga a essere l’Altro dall’uomo, senza avere a sua volta il diritto né l’opportunità di costruirsi come Altra. Con veemenza da polemista di razza, Simone de Beauvoir passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna – sposa, madre, prostituta, vecchia – e i relativi attributi – narcisista, innamorata, mistica.

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