«Stavo passeggiando quando sentii una voce dire “Buonasera signor Dowd!”. Io allora mi rivoltai e ti vidi, questo grande coniglio bianco appoggiato ad un lampione. Non ci vidi nulla di strano perché quando uno ha vissuto in una città quanto ho vissuto io in questa, si fa l’abitudine al fatto che tutti conoscano il tuo nome». Chi è il folle? Lo zio affidabile e leale che con candore ammette di vedere un coniglio con cui parla oppure chi lo vuole chiuso in una clinica? Questo tenero elogio della pazzia con l’everyman per antonomasia, James Stewart (Harvey, film del 1950), è una delle innumerevoli variazioni adulte del cosiddetto amico immaginario che normalmente viene attribuito alla dimensione dell’infanzia. Ma ne abbiamo, di esempi. Tarantino, in La vita al massimo, per il suo Christian Slater sceglie il più incredibile dei padrini, un Elvis che gli dà consigli inverosimili e lo indirizza nella sua mirabolante avventura. Anche in Fight Club ne troviamo uno: la doppia personalità che si manifesta come un’apparizione, una vocetta che parla a Brad Pitt fino a prendere il sopravvento sull’altra metà del suo cervello. Così Woody Allen in Provaci ancora Sam: al suo fianco un immaginario Bogart che lo aiuta a sedurre le donne. E andiamo avanti con Mr. Beaver: di nuovo la doppia personalità, a firma Jodie Foster questa volta, dove l’amico immaginario qui è un palliativo, un castoro peluche manovrato dallo stesso protagonista, Mel Gibson. Per non parlare del mitico Shining, col figlio che dialoga con Tony, amichetto della fantasia che gli suggerisce quel che accade. E poi gli intramontabili A Beautiful mind, Donnie Darko e Il mio amco Eric di Ken Loach, anche loro zeppi di amici immaginari.

Ho citato questi film per sfatare il mito che collega il rapporto con l’amico immaginario e l’infanzia: stiamo infatti parlando di un particolare (meta)rapporto che può essere una efficace strategia di coping anche in età adulta, laddove non viri in patologia. La letteratura scientifica, pedagogica e psicologica, fin dagli anni ’30 ha condiviso per lungo tempo un atteggiamento allarmistico nei confronti degli amici immaginari (leggi Il compagno immaginario. Studi psicoanalistici), e in effetti la sopracitata filmografia ne riproduce il feeling. Tuttavia, in momenti di transizione, questa modalità ideativa, capace di creare una presenza benevola, affettuosa, calda, accogliente, alleata, complice, è una strategia di eleborazione, riflessione e trasormazione che, se non si cristallizza e staticizza, può essere di grande aiuto. Il nostro amico infatti non necessariamente è frutto di una scissione psicotica, anzi, può essere una funzione creativa che ci permette una evoluzione in termini di accettazione e riorganizzazione, spesso in seguito a un trauma o a un passaggio difficile nelle nostre esistenze: è un amico con cui si gioca, ci si confida, si litiga, di solito segreto, intimo (se nei bambini è in genere un animale, negli adulti può esserlo ad esempio l’invisibile e astratta platea di un social network!).

L’invenzione di un compagno immaginario rappresenta dunque una via creativa per far fronte a conflitti emotivi che razionalità e mente cognitiva non riescono a soluzionare, una modalità per non cadere in nevrosi patologiche, un talento capace di colmare vuoti fisiologici in momenti difficili della vita, sia a livello di sviluppo personale sia in termini di ristrutturazione della personalità. Ovviamente è importante che si resti sempre consapevoli della natura fittizia dell’amico immaginario, che il rapporto e il contatto con la realtà resti intonso, e che non si tratti invece di una costruzione patologica sostitutiva dei rapporti con altri esseri umani, investita di concretezza allucinatoria. E’ insomma banale pensare che il compagno immaginario sia un povero sostituto di amici reali: sarebbe come considerare nevrotica la capacità immaginativa e fantastica. Sarebbe come condannare Isaac Asimov o Ursula Le Guin alla malattia mentale: usare la fantasia per creare amici immaginari vitali (escursioni creative) che ci risolvano i problemi e ci aiutino a tollerare le frustrazioni significa essere ottimi alleati di se stessi, lavorare per la propria salute mentale. Ce lo spiega bene Pessoa, nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 1935: L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […]. L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.

Detto questo passiamo al film di cui voglio parlare oggi e che vi consiglio di vedere, soprattutto se siete genitori di bambini tra i 4 e i 9 anni, ma via libera per tutti, che siate Baby Boomers, Millennials o Generazione Zeta: Il drago invisibile, del 2016 (su Disney Channel). La pellicola è il remake del celebre Elliot il drago invisibile del 1977 che io e molti della mia generazione hanno disperatamente amato, nonostante i pacchi di fazzoletti. Entrambi basati su un breve racconto di S. S. Field e Seton I. Miller, quello del 2016 vanta Robert Redford, che non è proprio cippa. Non solo. I giovani attori, Oakes Fegley e Oona Laurence, ci trascinano nel gorgo insondabile di una travolgente empatia, perchè, diciamocelo, non occorre aver perso i genitori in un incidente stradale a 4 anni ed essersi smarriti nella contigua foresta per vivere il sentimento della perdita e della mancanza, così come, anche senza incontrare un drago che vola e sa rendersi invisibile, chiunque di noi conosce l’emozione profonda del bisogno, della dipendenza, dell’amicizia, del legame.

Insomma una vera e propria lezione di vita: 102 minuti di avvincente contatto con se stessi, coi propri sogni e le proprie paure, con le speranze e le delusioni, con le nostre vulnerabilità e le immancabili risorse. A parte i convincenti effetti speciali che aiutano sempre, l’aspetto più prezioso di questo film è la capacità di dare realtà a una storia fantastica. Ossia, appunto, di convincerci dell’esistenza dell’amico immaginario. A tal punto che ritroviamo il nostro o, se non l’abbiamo mai avuto, ne troviamo uno proprio guardando il film – o almeno impariamo come si fa a cercarlo.

Impossibile infatti non desiderare la dimensione in cui vive Pete: regista autore e sceneggiatore del proprio personaggio, il bambino, dopo averlo creato, lo ha addirittura incontrato, il suo Elliot. Un drago, nel caso di specie, con cui ha costruito un rapporto che ha tutte le caratteristiche tipiche della relazione con l’amico immaginario: Pete infatti lo tratta come se fosse una vera creatura, con una sua dignità e con caratteristiche personali che lo differenziano talvolta in modo notevole da colui che l’ha creato (Pete stesso). Il bambino infatti gli conferisce quella personalità, quell’indipendenza di pensiero e quella vita personale autonoma che dimostrano una più che adeguata rappresentazione cognitiva di sé e un’avanzata organizzazione mentale, nonché una sofisticata capacità di autocoscienza, intesa come consapevolezza o esperienza dell’interiorità. Del resto, non è parlando con un pallone di nome Wilson che Tom Hanks, precipitato su un’isola deserta, si salva (trailer Cast away)?

E’ interessante osservare e godere del profondo legame che Pete crea con Elliot e l’influenza che quest’ultimo esercita sul suo creatore, tale da spingerlo ad attribuire al suo amico invisibile delle emozioni, e a credere che alcuni dei suoi stati d’animo siano determinati dal personaggio ideato, senza però perdere mai il contatto con la realtà: che Pete infatti sia consapevole di rappresentarsi una realtà fittizia lo dimostra il fatto che si guarda bene dal raccontarla ad altri, rendendosi conto che la sua è un’esperienza personale, importante per lui, ma che potrebbe essere fraintesa da chi non fosse capace di comprenderne la profondità.

Se avete bisogno di uno psicoterapeuta, consiglio il Centro Clinico De Santis, altrimenti godetevi Il drago invisibile al più presto e.. sognate!

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