Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.

Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI

Queste terzine non hanno bisogno di grandi presentazioni. Si tratta di versi immortali, che hanno fatto non solo la storia della letteratura italiana, ma della letteratura in generale. I celeberrimi versi sono scritti da Dante Alighieri per essere pronunciati dal personaggio forse più iconico e complesso della letteratura classica: Ulisse.

Ulisse: l’eroe che vuole conoscere

Da sempre Ulisse è connesso con l’idea di intelligenza e capacità di persuasione. L’eroe astuto per eccellenza, che riesce grazie al suo ingegno a sfidare dei, creature divine e mostri. È colui che riesce ad accecare il ciclope Polifemo, figlio di Poseidone, il re del mare. È colui che ha ideato lo stratagemma del Cavallo di Troia che ha permesso agli Achei di vincere la guerra (anche se sul fatto se sia o meno effettivamente stato un cavallo ancora i critici dibattono). È colui che sfida sempre di più i propri limiti: Ulisse è sospeso tra il desiderio di tornare a casa, nella sua Itaca, da sua moglie e dal figlio che ha lasciato appena nato, e la voglia di conoscere.

Emblematico di questa volontà di conoscenza è l’episodio delle sirene, una delle avventure più famose dell’Odissea: Ulisse si fa legare per non subire le conseguenze del canto delle sirene, ma vuole comunque udirlo. Il rapporto tra Ulisse e le divinità è quanto mai controverso: l’eroe omerico non si pone come un uomo come gli altri, ma non in quanto si sente divino, infatti rifiuta perfino l’immortalità offerta da Calipso. Non è un uomo come negli altri nella misura in cui è un eroe multiforme, che in virtù della propria mortalità e fragilità vuole rivendicare il suo diritto alla conoscenza anche a rischio di offendere gli dei.

L’Ulisse di Dante

Nella Divina Commedia, Ulisse ha una storia molto diversa da quella dell’epica: non abbiamo, infatti, notizie circa la sua morte nei poemi omerici. Invece, nel poema dantesco egli è morto cercando di varcare le colonne d’Ercole (lo Stretto di Gibilterra). Dante, che non conosceva il greco antico, si riferisce alla versione in latino raccontata da Ovidio, e lo colloca all’Inferno in quanto consigliere fraudolento: ha infatti convinto i compagni a seguirlo in questa tremenda impresa, finendo per uccidere se stesso e anche gli altri. Il peccato riguarda non soltanto la parola che persuade a compiere un’azione dall’epilogo rovinoso, ma anche l’incapacità di concepire i propri limiti. Anche se Dante lo colloca all’Inferno, come accade per altri peccatori a cui dà voce e per cui prova pietà, non lo condanna direttamente (pensiamo a Paolo e Francesca nel Canto V, alla fine del quale Dante sviene per la commozione).

Gli fa, invece, pronunciare un discorso che è diventato un inno a non vivere come “bruti”, ma a essere persone di valore, che insegnano la conoscenza e la virtù. L’errore e il peccato di Ulisse non consiste in questo suo desiderio di conoscenza, bensì, secondo Dante, nel fatto di operare questa ricerca senza la guida di Dio, in linea con il pensiero medievale che appartiene all’autore. Tuttavia, il messaggio è chiaro: essere uomini e non bruti significa conoscere.

Dante letto da Primo Levi

La storia di Ulisse è stata un esempio per tantissimi altri autori che dalla tradizione omerica hanno attinto in maniera sempre diversa. Si può fare un quadro di questo personaggio tra le varie epoche, affascinate da questa figura. Una delle citazioni contemporanee più toccanti è contenuta in Se questo è un uomo di Primo Levi: nel Capitolo 11 del libro, Levi racconta del momento in cui recita i versi di Dante a un compagno di prigionia, non versi qualsiasi, bensì quelli tratti dal “‘Canto di Ulisse”, quindi dal Canto XXVI.

Questo passo è tra i più toccanti della storia della letteratura e ne mostra tutto il valore. Si tratta di uno dei rari momenti in cui la disumanizzazione provocata dal campo di concentramento si attenua, in quanto recitare questi versi permette a Levi di riprendersi la sua umanità. I “bruti” di cui parla Ulisse per mano di Dante, dicendo ai suoi compagni che non sono fatti per esserlo, sono proprio loro, sei semplici numeri, chiusi nel campo di concentramento.

“Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza”. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio.

Se questo è un uomo, “Il canto di Ulisse”, Primo Levi

Ma grazie a questo momento di poesia, in cui Levi cerca di ricordare a memoria i versi e di tradurli in francese per il compagno, si recupera la dignità di uomini che si ricordano cosa significa la conoscenza. Lo stesso ricordo della poesia che ha Levi gli consente di trovare un barlume di umanità in un contesto che inevitabilmente lo priva della stessa. Il messaggio di Ulisse è ancora immortale e chiaro: nei momenti più difficili della vita, la ricerca del sapere e la poesia possono essere un’ancora di salvezza.

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