Spoiler alert: non leggete questo articolo se non avete visto il film o se per voi Almodovar è un intoccabile.

Stiamo parlando di Madres paralelas, ultima fatica del 72enne Pedro Almodovar, qui sceneggiatore e regista, appena uscito e premiato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con la meritatissima Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Penélope Cruz.

Cominciamo dalla fine, chiave per interpretare tutto il film, che è spudoratamente a tema: «Por mucho que se la intente silenciar, la historia humana se niega a callarse la boca». E’ una frase di Eduardo Galeano («Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere»), e si riferisce apparentemente alla Guerra Civile spagnola, strazio che ha diviso e segnato una nazione.

Dico apparentemente perchè il plot dei 120 minuti in realtà racconta tutt’altro: due donne si conoscono in ospedale, entrambe partorienti di una figlia non cercata, entrambe single. La storia racconta le due maternità simmetriche (protagonista Penelope Cruz, deuteragonista Milena Smit, 25enne con una candidatura al premio Goya come migliore attrice rivelazione 2021), fino al momento in cui la bambina di Smit muore (morte in culla) e Cruz scopre lo scambio delle neonate, avvenuto per errore in ospedale. La bimba morta di Smit è quindi biologicamente figlia di Cruz, mentre la piccola Cecilia, cresciuta da Cruz, è biologicamente figlia di Smit.

Sullo sfondo, dicevamo, la ferita della Guerra Civile: l’uomo di cui Cruz è rimasta incinta, Arturo, è un antropologo forense a cui lei ha chiesto di scavare nel sito di una fossa comune dove potrebbe essere stato seppellito il suo bisnonno, desaparecido. Il finale è la riesumazione dei cadaveri: padri, nonni, mariti e fratelli delle persone uccise nel piccolo villaggio d’origine di Cruz.

Tutta la trama, però, dicevamo, si tesse intorno allo scambio delle neonate (la vita e la morte, i vagiti in culla e gli scheletri nella terra): il regista sembra non trovare pace finchè non ricompone l’albero genealogico in termini di DNA, e lo fa frettolosamente, didascalicamente, impietosamente, in modo inverosimile e volgare.

Nonostante le abilità manipolatorie indubbie di un artista tra i più grandi viventi, grazie alle quali il film è avvincente e ci tiene incollati, l’effetto, una volta riaccese le luci in sala, è quello di una conferenza del Familiy Day: Cruz, tormentata dal senso di colpa (che Almodovar vuol far passare per senso di giustizia o rispetto della Storia, della verità), restituisce la figlia alla madre biologica, e poi felice e contenta fa un altro figlio con Arturo, mentre ritrova il bisnonno sotterrato confermando che, appunto, per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere.

Accomunare la violenza di Franco e dei franchisti a chi cresce un figlio biologicamente non proprio, rendere similitudine la restituzione dei cadaveri fucilati per dare loro degna sepoltura alla riconsegna da parte di una madre di un figlio in cui non scorre lo stesso sangue, affinchè cresca “al giusto posto” è una aberrazione.

Non importa quanto Almodovar cerchi di addolcire la pillola (oltretutto impasticciando la sceneggiatura, inutilmente complicata) sottolineando consensualità, alleanza ed empatia tra le due madri, fino a farle andare a letto insieme, così, tanto per. Resta comunque una aberrazione l’aver tentato di manipolare lo spettatore su un tema in cui è importante, al contrario, fare chiarezza.

Ecco, insomma, come sbriciolare anni di battaglie civili per sdoganare la procreazione medicalmente assistita (PMA) emancipandola dai pregiudizi che questo film riconficca nell’immaginario collettivo nascondendo la mano, parlando cioè apparentemente di altro.

Resta a questo punto da domandarsi se forse Almodovar non sia – come sembra – un reazionario osoleto che ribadisce che i figli sono solo quelli genetici, in nome dei legami di sangue (come la pensavano i nostri nonni), ma invece un visionario che predice ciò che sta per accadere: una stretta in termini di diritto per regolamentare più rigidamente la manipolazione onnipotente delle nascite e della vita.

Restano, in ogni caso, tre i momenti filmici non credibili che fanno inciampare il nostro amato regista e mettono in dubbio la sua buona fede in termini di storytelling:

  1. Il sorvolare sul lutto di Smit per la morte in culla della propria bimba: inverosimile!
  2. Il congedo da pianerottolo (letteralmente) di Cruz con sua figlia, dopo due anni di maternage (che fine ha fatto la sostanziale narrazione necessaria del tormento per l’assurdità di quel distacco?)
  3. La velocità con cui viene risolta la tragedia: un figlio in grembo a veloce sostituzione dell’altra, appena restituita.

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