In questi giorni amari credo sia giusto essere portatori di speranza, costruttori di Luce, essere testimoni di riuscita. Grazie al coraggio e alle lotte pacifiche degli artisti trovo, sempre, quella forza che mi dà la spinta a fare, fare, fare, perché non mi fa sentire solo. E tra il fare… ho fatto una telefonata a Lucilla Giagnoni, bravissima collega che ho iniziato ad amare da spettatore incantato ad un suo spettacolo, e che da allora seguo con affettuosa ammirazione. Parlando con lei ho pensato: “Quello che non stanno facendo i nostri “capoccia” al governo (ne avrei di boccaccesche parole per infiorare quei rami secchi), lo stanno facendo tanti teatranti di grande sensibilità”. Il suo è un modo tutto particolare di annaffiare l’albero della fiducia.

Lucilla, tu oltre ad essere un’attrice dirigi anche il Teatro Faraggiana di Novara, cosa significa essere anche direttrice artistica di un teatro? 
Se in qualità di artista io sono produttrice, autrice, amministratrice, venditrice, giornalista, insegnante, e alle volte anche tecnico e autista, essere direttrice di un teatro mi fa stare ancora di più con i piedi per terra. Mi piace la terra, le ho dedicato un intero spettacolo, Magnificat. Humilitas è quello che intendo per piedi per terra. Non l’essere inchiodati a terra, ma la ricerca di un’armonia, un contatto diretto con la terra ed ecco che mi ritorna la parola pianta: avere le piante dei piedi per terra. Flessuosamente piantata per terra posso ondeggiare, spaziare, estendermi all’intero Pianeta Terra percependolo come grande corpo e organismo vivente. E perciò, se parlo di terra come direttrice di un teatro, allora vuol dire entrare in relazione piena, creativa, generativa, con un intero ambiente, una città, quella in cui vivo, in cui c’è mia figlia, la mia famiglia e molti dei miei amici.

Ci racconti come cerchi di far sopravvivere il Teatro, nonostante la chiusura?  Far sopravvivere… è un’immagine che mi rimanda alla relazione che mi capita di avere con una pianta. Le piante sono il sistema vivente più consistente che ci sia sulla Terra, ma la mia piccola piantina di casa invece devo curarla quotidianamente, sforzandomi di capire che quantità di acqua, luce, aria, che relazione con le altre piante la può tenere in vita. So che può essere percepita come una metafora d’artista, ma il Teatro non ha bisogno del mio gesto per sopravvivere: cresce da solo in ogni angolo, anche se noi, non sappiamo più che pianta è, e forse non la vediamo neanche più (plaint blindness la chiama il botanico Stefano Mancuso).

Al teatro Faraggiana di Novara, invece, di cui sono direttrice artistica, e al mio lavoro quotidiano d’attrice e autrice, beh, a loro non basta un’innaffiatura settimanale! È sempre un discorso di cultura, intesa come coltivazione, zappare il terreno, lavorarlo, seminarlo ecc. In questi giorni, vanga in spalla, ci siamo rivolti direttamente al sindaco della nostra città (niente ministero o battaglie nazionali che, o finiscono nel nulla, o vanno ad innaffiare piante già alte e robuste che prendono la maggior parte del sole sopra tutte le altre). Mi sono rivolta all’amministratore del nostro territorio, dicendogli che ci voleva uno sforzo e che dovevamo farlo insieme. Territorio e teatro, città e teatro, rimboccarsi le maniche e lavorare terra- terra. Così è stato: abbiamo lanciato un progetto che si è chiamato “La cultura è essenziale”; con un’apposita delibera, il Comune ha provveduto a un contributo economico per la messa in scena a porte chiuse e la registrazione degli spettacoli della stagione che altrimenti sarebbero saltati e la loro messa in onda streaming su una piattaforma You Tube gestita dalla stessa Amministrazione. La stagione teatrale va avanti, tutti i lavoratori, artisti e tecnici, e gli spettatori, non perdono “la data”. Certo, il Teatro non è on line; qui per ora si tratta soprattutto di aver considerato come fondamentale il terreno e aver portato un po’ di concime. Che ce ne sia tanto, di concime, è l’augurio migliore che si fanno tra loro i teatranti.

Che mondo è quello che non si occupa più della cultura, del teatro?
Parlo dei teatri e dei cinema perché sono gli spazi in cui lavoro, ma ho nel cuore anche tutti gli altri luoghi in cui ci si mette al servizio della cura e della crescita della persona. Il DPCM che ci ha fatto chiudere è stato devastante. Non perché chiude i teatri, ma perché, sancisce il fallimento di tutto quel lavoro collettivo fatto durante e dopo il lockdown con l’idea di bene comune come preciso riferimento: oggi i teatri sono considerati luoghi da chiudere, ma noi sappiamo benissimo che non c’è un luogo in cui ci sia consentito andare, vivere, lavorare, progettare, che non comporti un rischio. So che è un’affermazione dura ma il paradosso è: ai primi di ottobre l’Agis ha dimostrato attraverso una ricerca che, proprio perché i teatri e i cinema hanno rispettato in pieno le norme di sicurezza sanitaria, in questi luoghi non si è verificato un solo contagio in tutta Italia. È vero anche che non possiamo pensare di restare aperti se la narrazione “main stream” ripete in maniera ossessiva solamente che siamo in pericolo. C’è bisogno di immaginare un nuovo modo di stare al mondo, nel rispetto di un equilibrio con la natura, con gli animali, i virus, i batteri, con lo spazio e il tempo, di andare avanti e comunque, nella difficoltà, farsi forti e continuare a crescere… in qualità. E dove si può fare questo se non nelle scuole, nei teatri, nei cinema e, certo, sì, nelle palestre e con lo sport? Quello che denuncio dunque non è la chiusura temporanea (spero) dei nostri spazi, ma il degrado simbolico a cui inesorabilmente siamo spinti, quando si è relegata quell’attività che offre ricchezza “immateriale” al ruolo di “inessenziale” all’essere umano. Non c’è bisogno di scomodare grandi pensatori per dimostrare la potenza dei simboli, che cosa ha fatto una croce nella storia, ma anche una svastica o una bandiera. Ora saranno stanze, balconi, autocertificazioni, e, forse, chissà anche serrande, catene e lucchetti, senza parlare di tamponi e mascherine. Questa che ci viene inferta, oltre che economica è anche una ferita simbolica, per questo ancor più drammatica, perché profondamente attiva e che ha come esito, la distruzione di anni di lavoro di “engagement e development” (linguaggio usato dalle istituzioni, già così povero allora) che in passato comunque si è voluto finanziare. Ancora una volta mi tocca ricordare la famosa risposta di Churchill a chi gli diceva sotto le bombe che si dovevano chiudere i teatri: “Per cosa staremmo combattendo allora?”.

Cosa ti chiede il tuo pubblico? Chiedono rispetto per la cultura. In molti si sono espressi. Sanno che questo lavoro “terreno” di coltivazione quotidiana è un reale “ristoro”, è il gesto che cura. Non vogliono una terapia: chiedono di condividere le visioni di artisti come me e come te, visioni che vadano oltre tutto questo. Amerebbero tornare a confrontarsi in un luogo che dava loro sicurezza perché rispettoso del bene comune e creare insieme una nuova narrazione per potersi dare da fare e… perché siano garantite le fioriture a primavera.

Un testo (letterario, teatrale o altro) che in questo momento possa essere un’ottima cura dell’anima?
Dandosi gli strumenti per capirlo perché appartiene ad un altro mondo: il Bhagavdgita. È il testo che leggeva Gandhi tutti i giorni. È il testo di riferimento di Aurobindo. È il testo su cui ho scritto uno dei miei spettacoli: Furiosa mente. È il testo di maestri che seguo. Oppure il cantico delle creature di San Francesco. Oppure il salmo del Magnificat. Oppure tutta la poesia della Szymborska.

Se questo articolo lo leggesse Franceschini capirebbe quanto siano importanti gli artisti che lavorano sul territorio, con la gente, per le persone, per i luoghi, per i nostri futuri italiani, che devono crescere come alberi meravigliosi: generatori di ossigeno.

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