È stato appena pubblicato da Adelphi Maniac, il nuovo libro di Benjamin Labatut, in traduzione di Norman Gobetti. Labatut è un autore cileno che ha ottenuto negli scorsi anni una certa notorietà per il suo interesse verso l’effetto degli sviluppi della scienza sugli esseri umani, intesi sia come singole persone che come società.  Nel 2020 aveva pubblicato Quando abbiamo smesso di capire il mondo, nel quale esplorava le vite di scienziati e matematici artefici di scoperte rivoluzionarie che hanno influenzato profondamente il mondo. Ripercorrendo eventi come la scoperta del prussiato di sodio, le innovazioni di Werner Heisenberg ed Erwin Schrödinger, l’evoluzione della teoria quantistica, Labatut si concentrava in quel libro sulle implicazioni filosofiche, le sfide e i paradossi insiti nel progresso scientifico, che spesso sfuggono alla piena comprensione umana.

Labatut in Maniac, tre vite geniali, l’informatica e l’intelligenza artificiale

La biofiction, ossia l’utilizzo libero di personaggi reali e delle loro vite a fini narrativi, serve a Labatut per indagare il reale attraverso gli strumenti della riflessione letteraria. È la stessa strategia utilizzata in Maniac, che racconta le vite di tre personaggi legati allo sviluppo dell’informatica e dell’intelligenza artificiale: Paul Ehrenfest, John Von Neumann e Lee Sedol. Tre personalità geniali che hanno vissuto i turbamenti della relazione tra umano e artificiale, non risolta e forse irrisolvibile. Coprendo un arco cronologico che va dagli anni Trenta a giunge fino ad oggi, Labatut identifica una linea oscura che segna la storia dell’intelligenza artificiale, mostrando i fallimenti e i dilemmi che sottostanno alla sua creazione.

L’incipit del libro è fulminante: il 15 settembre 1933 il matematico Paul Ehrenfest entra nell’istituto dove è ricoverato il figlio disabile, lo uccide e poi si suicida. La data è evocativa, coincide con l’anno dell’avvento del nazismo, il caos della storia, a cui fa da contraltare una scoperta che porta Ehrenfest oltre il limite della follia, quella del caos del mondo. In quegli anni la matematica stava aprendosi a nuove frontiere, che attribuivano centralità nei processi del mondo all’indeterminatezza e al disordine.

Il personaggio centrale del libro di Labatut è però senz’altro John Von Neumann, ideatore del Maniac, il calcolatore da cui prende il titolo il libro. La parabola di Von Neumann inizia come quella di Ehrenfest, con la constatazione dell’impossibilità del proposito di stabilire i fondamenti della matematica. Come Ehrenfest, anche Von Neumann finisce per scontrarsi con il disordine intrinseco del mondo, con l’irriducibilità del paradosso; ma a differenza di Ehrenfest lo accetta, la sua personalità gli permette di andare oltre e di dedicarsi ad altri ambiti, che lo porteranno progressivamente verso l’informatica: prima la teoria dei giochi, poi la partecipazione al Progetto Manhattan, spinto da un’indomabile passione per la guerra.

Labatut ci fa notare come nello stesso momento la storia ci abbia consegnato il male più grande, la bomba atomica, e il prodotto che avrebbe rivoluzionato il mondo e disegnato il futuro, il computer. Il bene e il male si intersecano, la differenza la fa la scelta umana, questo è il punto che Von Neumann non capisce, ma che Labatut ci restituisce attraverso una narrazione corale, in cui le persone che ebbero a che fare con lo scienziato prendono voce una dopo l’altra.

L’ultima tappa è, come accennato, la costruzione del Maniac, calcolatore potentissimo per l’epoca, al quale Von Neumann affiderà prima il compito di effettuare i calcoli per la bomba a idrogeno, potenziale fine dell’umanità, e poi quello di definire matematicamente un modello per la vita: tensione alla distruzione e alla costruzione convivono nella figura dello scienziato.

Il gioco del Go. Labatut e il punto di vista dello sconfitto

Terza tappa del viaggio di Labatut in Maniac è la storia del campione di Go, Lee Sedol. Il gioco del Go è un antico gioco da tavolo in cui due giocatori posizionano alternativamente pietre nere e bianche su un tabellone grigliato, cercando di circondare il territorio avversario mentre difendono il proprio. Un gioco di strategia, in teoria non riducibile al calcolo: elemento che rese ancora più strabiliante la sconfitta di Lee Sedol, nel 2016, ad opera di AlphaGo, un sistema di intelligenza artificiale sviluppato da DeepMind. Una vittoria che ha segnato un punto di svolta nella ricerca sulla IA, dimostrando come le tecniche di apprendimento profondo potessero affrontare e superare complessi problemi decisionali precedentemente ritenuti irrisolvibili dalle macchine. Nel suo racconto Labatut ci offre il punto di vista del campione sconfitto. Sedol riesce a vincere una sola partita, attraverso una mossa altamente improbabile (una possibilità su diecimila), che il giocatore umano sceglie spinto non dalla logica ma dall’istinto. Dopo aver scavato per più di 350 pagine nel lato oscuro della tecnologia, Labatut in conclusione sembra voler tracciare un esile filo di speranza, quella differenza tra l’essere umano e la macchina che permette ancora di distinguere e distinguerci.

Se il compito della letteratura è quello di porre l’accento sulle questioni centrali del nostro tempo e mostrarcene i risvolti, il libro di Labatut centra in pieno l’obiettivo. Attraverso le parabole dei tre personaggi storici, l’autore ci mette di fronte alle implicazioni etiche dell’intelligenza artificiale, oggi studiate da filosofi e scienziati. Quale uso si dovrà fare delle nuove tecnologie? Quale mondo vogliamo che l’intelligenza artificiale rispecchi? Come saranno riscritti i rapporti sociali, economici e culturali? Quali saranno le conseguenze di una eventuale ridefinizione del confine tra umano e non umano? In questo spazio di confine lavora Labatut, ed è lo stesso spazio verso il quale tutti oggi siamo spinti ad abitare.

[In collaborazione con Daniel Raffini]

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