“Manifesto Vegan”, soy boy: per un veganismo queer
Scegliere di non mangiare animali può aiutarci a decostruire la nostra mascolinità. Rasmus Simonsen nel suo "Manifesto queer vegan".
Scegliere di non mangiare animali può aiutarci a decostruire la nostra mascolinità. Rasmus Simonsen nel suo "Manifesto queer vegan".
Quante volte vi è capitato di sentir parlare di un maschio vegan come di un effeminato o, più esplicitamente, di un gay? Se siete vegan, avrete certamente dovuto rispondere infinite volte alle allusioni sulla vostra virilità:
“non mangi le bistecche, ma almeno le donne ti piacciono”?
Come se, per inciso, il corpo femminile fosse poco più che un oggetto di consumo, al pari di un prodotto di supermercato (prodotto che del resto una volta era il corpo di un altro soggetto, seppure non umano). Il livello di volgarità dipende dal contesto culturale e dal grado di confidenza fra le persone, ma il sottotesto è tendenzialmente sempre lo stesso. In che modo rispondiamo, come singoli e come collettività antispecista, a queste forme di ridicolizzazione della nostra volontà di non uccidere animali per soddisfare il gusto e, al tempo stesso, di riaffermazione dei capisaldi della norma eterosessuale?
Troppo spesso, la nostra risposta consiste in un’affannosa rassicurazione, più o meno esplicita:
“non mangio animali, ma stai tranquillo, sono etero come te, anzi di più!”
come se fossimo preoccupati di disturbare troppo il quieto vivere di una società fondata su diverse norme egemoniche (nonostante le cose siano un po’ cambiate, negli ultimi anni, grazie all’azione dei movimenti LGBTQI+). Come se dovessimo tranquillizzare l’interlocutore sul fatto che, sì, disturbiamo un po’ un’umanità che vorrebbe mangiare le bistecche in santa pace, ma non al punto da evocare lo spettro dell’omosessualità.
La persona vegana, in effetti, come ha ben mostrato lo studioso Rasmus Simonsen nel suo Manifesto queer vegan, mette in discussione, con la sua stessa prassi quotidiana, almeno due assi portanti dei rapporti di potere vigenti: la superiorità umana sugli altri animali, in modo abbastanza ovvio, e l’eteropatriarcato, in modo forse meno ovvio.
Così Simonsen racconta il suo coming out vegan:
“Quando informai i miei genitori che intendevo diventare vegano, mia madre scoppiò in lacrime e disse: “Come potrò ancora cucinare per te?!” Nel mio contesto familiare, il perturbamento non intenzionale causato dalla mia scelta suonò, a dir poco, straniante [queer]: il ruolo di mia madre come nutrice veniva, a suo modo di vedere, messo a repentaglio e ogni pasto che avrei consumato in famiglia avrebbe sfidato abitudini alimentari antropocentriche.
Rifiutando non tanto il cibo animale quanto, peggio ancora, la modalità stessa dello stare insieme che si realizza intorno al desco familiare, sarei diventato un “guastafeste”, “quello che si mette di traverso nella solidarietà organica” che si instaura nell’atto di mangiare.
La mia decisione aveva messo in dubbio la funzione della tavola, luogo della coesione familiare; il cameratismo, la forza affettiva che mi legava al resto della famiglia non poteva più essere data per scontata. Opponendosi all’uccisione di esseri di altre specie, i vegani possono effettivamente, e ironicamente, trasformarsi negli “assassini” “della gioia familiare”. Niente più pasti “felici” insieme.
Non solo: dato che in futuro mia madre non avrebbe più potuto continuare a svolgere lo stesso “lavoro di servizio” femminile per me e per gli altri componenti della famiglia, la mia scelta metteva in discussione anche l’ordine eterocentrato dello spazio domestico”.
Che la norma eterosessuale e quella specista siano strettamente legate non è un mistero, grazie soprattutto ai lavori della femminista antispecista Carol J. Adams sui nessi fra oggettificazione del corpo femminile e di quello degli animali allevati, nonché fra consumo di carne e virilità.
Secondo Carol Adams, esiste una lunga tradizione che associa al cibo di origine animale tutta una serie di significati simbolici associati alla maschilità egemone. Ed è per questo che, per esempio, le porzioni di carne considerate nutrizionalmente più preziose venivano riservate al capofamiglia. Il cibo animale è simbolo di forza e di potere, mentre quello vegetale è roba da donne. Per questo, noi tendiamo a percepire la carne, e in particolare certi tipi di carne, come cibi “da maschio”.
Chi le rifiuta, si sottrae a un senso di cameratismo maschile, alla condivisione di una serie di valori impliciti su cui si fonda la virilità, e diventa in qualche modo un maschio sospetto, forse omosessuale, appunto. Non a caso, nei paesi anglosassoni, un ragazzo percepito come troppo poco mascolino viene detto soy boy, ragazzo di soia. Ed ecco che il maschio medio interviene, pattugliando attentamente due importanti linee di confine fra norma e devianza: quella di genere e quella di specie.
Ma, appunto, le forme di stigmatizzazione del veganismo maschile mostrano alcune peculiarità rispetto al più generale fenomeno della vegefobia. E le strategie argomentative della comunità vegan sono spesso problematiche, perché, mentre contestano la norma specista, rafforzano quella eterosessuale. Al di là del livello individuale, quello pubblico può essere esemplificato prendendo in esame un video di propaganda del veganismo diffuso nel 2016 dalla PETA (People for the Ethical Treatment of Animals), forse la più grande organizzazione mondiale per i diritti animali.
Il video (lo trovate qui) intitolato Last Longer, mette a confronto le prestazioni sessuali di un maschio carnivoro e di un maschio vegano, giustapponendo due scene di sesso eterosessuale: mentre la prima finisce dopo pochi secondi con l’orgasmo maschile cui la partner reagisce con evidente disappunto, la seconda prosegue fino alla fine del video. La prima scena si trasforma nella documentazione dei gesti sconsolati del maschio carnivoro dalle prestazioni insoddisfacenti che si riveste e si accinge a uscire di casa. Nel frattempo, metà dello schermo continua a mostrarci le straordinarie performance dell’amatore vegano.
I corpi scelti dai responsabili della comunicazione PETA sono come sempre muscolosi, sani, forti, esteticamente conformi ai canoni vigenti. Il confronto fra la qualità dei due rapporti sessuali si fonda sull’invisibilizzazione di tutti gli aspetti non penetrativi della relazione e sulla rappresentazione del desiderio femminile come unicamente legato alla valutazione quantitativa della prestazione del partner. In questo modo, PETA intende rispondere alle implicite accuse di impotenza o scarso vigore sessuale dei vegani, rispedendo l’accusa al mittente: sarebbero i carnivori a soffrire di problemi della sfera sessuale (in questo caso l’eiaculazione precoce) a causa di un’alimentazione ricca di grassi saturi ed altre sostanze nocive.
Insomma, siamo tentati di dare una risposta rassicurante all’intreccio di vegefobia e omofobia, almeno per quanto riguarda uno dei due aspetti della questione. Eppure, è forse proprio il contrario quello che potremmo fare.
Scegliere di non mangiare animali può aiutarci a decostruire la nostra mascolinità. Seguendo la proposta di Simonsen, dovremmo cogliere l’opportunità di disturbare il nostro interlocutore, il nostro commensale, dovremmo incoraggiare la decostruzione delle norme vigenti sia per quanto riguarda lo specismo che per quanto riguarda l’eterosessualità.
Il veganismo stesso, se inteso come qualcosa di più di un semplice stile di consumo, possiede questo potenziale sovversivo. Sta a noi scegliere se silenziarlo o se utilizzarlo per mettere in discussione le certezze che influenzano profondamente i rapporti fra i generi e, al tempo stesso, fra la nostra specie e le altre, mostrando il carattere violento delle modalità di relazione dominanti e indicando una direzione per costruirne di diverse, più egualitarie e non violente.