Il blocco causato dalla pandemia di Covid-19 ha interrotto il sogno di milioni di persone che si spostano ogni anno nel mondo per trasferirsi in un altro paese, i cosiddetti migranti internazionali. Un flusso gigantesco che ha interessato nel 2019 ben 272 milioni di individui i quali lasciano per motivi più o meno gravi la propria terra e vengono ospitati in gran parte in Europa.

Ma l’interruzione del sogno si trasforma spesso in un incubo per i migranti più fragili, che fuggono da condizioni di vita insostenibili, guerra, miseria, violenza, situazioni così drammatiche che risulta difficile persino immaginarle.

Soprattutto lungo le rotte del Mediterraneo, la chiusura delle frontiere ha colto migliaia di disperati nel pieno dei viaggi della speranza, o meglio dire dell’orrore, fermandoli sulle frontiere in preda ai trafficanti che, da quanto è dato sapere, ricorrono a pratiche sempre più aberranti nella loro tratta di esseri umani.

In particolare i migranti fermi sul territorio libico si trovano in centri di raccolta o meglio di detenzione, soggetti a qualunque forma di sopruso e privi di qualunque autonomia di scelta sulle loro possibilità di viaggio. Si stima che in Libia siano bloccate circa 700.000 persone.

L’eco dell’orrore di quanto avviene in questi centri si propaga ovunque e, tragicamente, soprattutto sui fondali del mare, dove affoga, insieme a donne, uomini e bambini che sono riusciti a partire ma non ad arrivare, anche l’immaginazione di cosa possa essere il male.

Il Covid-19 non soltanto miete vittime nelle situazioni di sovraffollamento, ma ha provocato anche il paradosso di bloccare nel corso del 2020 le partenze dei migranti regolari, senza incidere minimamente su quelle illegali che sfuggono al controllo.

I migranti che riescono a partire non ricevono più i soccorsi in mare degli enti governativi e delle ong e sbarcano, se riescono, direttamente sulle coste. Infatti le richieste di aiuto dal mare continuano ad arrivare, ma le navi di aiuto umanitario non possono prestare soccorso e la guardia costiera italiana non può intervenire oltre le dodici miglia delle acque territoriali.

L’inevitabile intervento di autotutela sanitaria dell’Unione europea per arginare alle frontiere il rischio di contagio pandemico ha così provocato la tragica conseguenza di aggravare ulteriormente la situazione dei migranti più disperati. Una tragica impasse da cui l’Unione europea deve trovare una via d’uscita che per ora non si riesce ad intravedere, nemmeno negli ultimi interventi politici sulla questione migratoria.

La gestione del fenomeno migratorio è da anni oggetto di attenzione della politica europea, ma di fronte alla pandemia è diventato più che mai indifferibile trovare una governance comune.

Gli interventi messi in atto dall’Ue sono numerosi: le operazioni Frontex, l’operazione militare navale (IRINI), le attività dell’Europol e del CEAS, ecc. Il 23 settembre 2020 la Commissione europea ha presentato la proposta di un nuovo Patto europeo per l’immigrazione e l’asilo. L’obiettivo principale è superare il sistema di Dublino istituito nel 1990 e aggiornato nel 2003 e nel 2013, basato sull’individuazione di un unico Stato membro al quale affidare la competenza delle domande di asilo soprattutto sulla base del criterio del primo paese di ingresso. Ciò ovviamente carica questo onere sui paesi di sbarco come l’Italia.

La proposta della Commissione prevede un nuovo sistema di gestione dei migranti e la distribuzione delle domande di asilo fra gli Stati membri con un nuovo meccanismo di solidarietà. Altri elementi della proposta riguardano il regolamento Eurodac sulla banca dati UE delle impronte digitali per i richiedenti asilo, lo screening preliminare obbligatorio e standard di accoglienza più dignitosi e armonizzati fra gli Stati membri.

Emerge tuttavia dalla proposta la volontà di rendere più restrittivi i flussi dei richiedenti asilo rafforzando le chiusure delle frontiere esterne, obiettivo perseguito soprattutto dai paesi del gruppo Visegrád. Inoltre, per quanto concerne il meccanismo di solidarietà, si afferma la possibilità per gli Stati membri di rafforzare i sistemi di finanziamento per i rimpatri ove ne sussistano le condizioni soprattutto per i migranti irregolari.

Ma la lacuna profonda della proposta del nuovo Patto è che viene dato poco spazio all’unica risposta possibile per contrastare la migrazione illegale, cioè la creazione e il rafforzamento di corridoi umanitari e di più intense forme di migrazione legale anche negli spostamenti dovuti alla ricerca di lavoro.

La conclusione che si può trarre è che la pandemia ha dato uno slancio ulteriore alla politica di chiusura dell’Unione europea rispetto ai flussi migratori già avviata prima della pandemia, come risposta alla crisi umanitaria che lungo la Rotta dei Balcani aveva portato in Europa più di un milione di persone. Il numero dei migranti risultante dai dati Unhcr è andato progressivamente diminuendo: 373.652 nel 2016, la metà nel 2017, 141.000 nel 2018, 123.000 nel 2019, 27.965 nei primi 6 mesi del 2020.

Ma se si guardano i numeri è lecito chiedersi se non sia opportuno impegnarsi di più nella gestione dei flussi migratori piuttosto che sulla chiusura delle frontiere. Davvero è ipotizzabile fermare 272 milioni di persone, come detto prima, che si muovono ogni anno sulla Terra? 1 abitante su 30. Di questi 79,5 milioni sono migranti forzati, 24,9 milioni sono migranti ambientali sempre più numerosi, 164 milioni migranti economici.

Tutto questo richiede risposte complesse a cui forse proprio l’Unione europea dovrebbe dare impulso. È possibile trovare il modo di valorizzare il fenomeno migratorio trasformandolo in risorsa?

Nel frattempo dal 2015 ad oggi più di 16.700 persone sono morte durante il viaggio per raggiungere le coste europee: almeno 241 nel 2020 e mentre i politici discutono, il Mediterraneo continua a risuonare di un pianto sommesso che arriva fino a noi.

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