Mentre finivo di leggere la raccolta di racconti Mostruosa maternità della scrittrice Romana Petri (Perrone editore, 2022), a pochi chilometri da casa mia, nel catanese, una madre denunciava il rapimento della figlia di cinque anni.

Pochi minuti prima che mi mettessi a scrivere questo articolo, il quotidiano la Repubblica titolava in prima pagina “Elena è morta, uccisa dalla madre. Non c’era stato alcun rapimento”. Della madre, scrivono sui social: snaturata-maledetta-ergastolocomeminimo-demonio-devecrepareallinferno-indegna-schifosa-penadimorteimmediata-mostro.

Qualcuno ricorda il caso Franzoni, e quasi sembra di risentire le protagoniste settantenni di uno dei racconti di Romana Petri e i loro giudizi secchi sulla madre di Cogne: “Quella è un’assassina, ce l’ha scritto in faccia”.

C’è ancora uno spazio largo – larghissimo – di indicibilità, dove si addensano tutte le storie nascoste e mai narrate in cui l’immaginario legato al materno smargina verso manifestazioni lontane da figure di madri oblative, sollecite nella cura e rassicuranti e diventa il teatro privilegiato di eventi mostruosi.

È in questo spazio che prendono vita le protagoniste di questa raccolta: madri di età diverse, appartenenti a differenti epoche di vita e di storia (dal Medioevo ai giorni nostri), che popolano una geografia vastissima dell’esperienza femminile della maternità. Tutte, in un modo o nell’altro, inghiottite da una cultura addomesticante che osanna e demonizza le donne in virtù della loro capacità di aderire ai ruoli e al ventaglio di possibilità loro concesse.

Le madri raccontate da Romana Petri sono mostruose per esubero dalla norma: insensibili, riempite di vanità, vendicatrici, assassine, si arrogano il privilegio della violenza strappandolo ai maschi, sconfessando la regola per cui tutti gli atti violenti agiti dalle donne siano sempre irrazionali, patologici, mossi dall’impazzimento.

Insieme costruiscono un linguaggio possibile per raccontare non una, ma le infinite variabili materne, alcune molto lontane dal racconto edulcorato della maternità tutta gioie.

Ci sono, in questi racconti, madri che uccidono per gelosia, per vendetta, per sfinimento. Altre tormentate dal corpo sformato dalla gravidanza e dalla bellezza che sfiorisce. Altre ancora angosciate dal ricordo di una vita che non avranno più.

Tornano in un attimo tutte le madri mostruose della letteratura: Harriet de Il quinto figlio di Doris Lessing, le madri tremende dei romanzi di Irène Némirovsky, Leda de La figlia oscura di Elena Ferrante, la madre insofferente di Matrigna di Teresa Ciabatti, quella anaffettiva de L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio, la Cattiva di Rossella Milone.

Continuavo a sentire quelle urla pure se da lì non avrei dovuto sentirle, me le sentivo in testa, dentro, come mi entrassero a cucchiaiate date a forza, ché qualcuno me le dava da mangiare, e io le dovevo deglutire, mandarle giù pure se mi davano la nausea e un giramento di testa come solo può fare l’effetto di un cibo scaduto.

L’anomalia della madre che uccide, che è per tutti il luogo dell’orrore per eccellenza, permette nel suo racconto una risemantizzazione importante del territorio materno: non più spazio che ingoia e depreda il sé femminile, non più sede ancestrale di istinti benevoli, non più promessa di metamorfosi per cui le donne smettono di essere quel che sono state per tutta la vita e diventano in un attimo creature nuove dai corpi smagliati e potenti. Al contrario: il territorio materno, nelle sue visioni mostruose, si riappropria di uno spazio materico e corporeo, per niente incline alla retorica e ai movimenti atavici, fatto non di vocazioni ma di scelte.

Così, le madri mostruose di Romana Petri uccidono insieme ai figli anche quell’idea di maternità che si prende ogni cosa e non lascia spazio ad altro coprendo col suo velo poetico ogni possibilità di inciampo e debolezza.

Il corpo espanso della madre è allora finalmente libero di inglobare anche le tristezze e le afflizioni, lo struggimento che è il dover aderire a un ideale, il disamore e i patimenti tutti, senza doversi credere mostruoso e dunque senza agire con mostruosità.

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