Quando andiamo al mercato o al supermercato, a fare la spesa, quanti tipi di mele, pere, patate o cipolle ci troviamo di fronte? Di solito non molte. Due, tre, forse quattro o cinque per alcuni frutti, più fortunati. Eppure, come evidenziato dal professor Enzo Melegari (ex docente dell’Istituto tecnico agrario statale Bocchialini di Parma), ne esistono molti di più:

Trentasei anni fa – racconta Melegari – mi davano del matto. La biodiversità era un concetto molto astratto. Ora va di moda, è sulla bocca di tutti. La varietà del resto è un valore fondamentale. Pensi alle mele: l’80% del mercato italiano è costituito da sei tipi stranieri, di cui solo una specie copre il 50%. Eppure, nel nostro territorio, ne contiamo ben 240 di varietà. Il rischio è perdere completamente questo straordinario patrimonio”.

Melegari ha rintracciato qualcosa come 700 tipi diversi di frutta: alle mele si aggiungo 120 varianti di pere, 70 di susine, dieci di cotogno, 25 di pesco, 20 di albicocco, 25 di ciliegio, 24 di viti, otto di fichi e di olivi, 25 di frutti minori, solo per citarne alcuni.

Ancora altri dati: alla fine del 1800 esistevano circa 8000 varietà di frutta. Oggi ce ne sono meno di 2000. Le motivazioni sono diverse: l’industrializzazione dei processi produttivi, il cambiamento climatico e quello delle abitudini alimentari. Le varietà sopravvissute sono quelle più convenienti da produrre e più adatte al trasporto.

Ma la diversità dei prodotti alimentari non si limita alle nostre scelte di consumatori, quando facciamo la spesa. La biodiversità – così come la varietà dei saperi, delle tecniche, degli approcci in agricoltura come negli altri settori – è qualcosa di molto più ampio e molto più importante: è strategica sotto il profilo economico per differenziare i prodotti in un mercato globale sempre più standardizzato; è coerente con lo sviluppo, le norme e le logiche della natura, che proprio grazie alle diversità di specie fa funzionare quella macchina perfetta che noi chiamiamo ecosistema, anche in rapporto alle attività umane e anche in un mondo antropocentrico (senza le api non avremmo il miele e senza gli animali non avremmo il concime); serve ad offrirci prodotti gustosi e ricchi di proprietà (sia per la salute sia per il palato), migliorando le nostre vite.

Ma c’è di più. Come ha scritto Silvio Greco, su Il Manifesto del 15/04/2020, riferendosi alla recente pandemia da Covid-19, “un virus non appare per caso. In natura vive nascosto in una specie detta «serbatoio», con la quale convive senza arrecarle danno perché con questa si è coevoluto. Dove alta è la biodiversità, dove numerose sono le specie, dove gli equilibri non sono intaccati, il virus prosegue la sua vita nascosto. Quando l’azione dell’uomo sconvolge gli equilibri degli ecosistemi naturali, mettendo in difficoltà l’ospite «serbatoio», il virus salta di specie e ne trova una nuova, non adattata alla sua presenza e la specie nuova si trasforma in ospite di «amplificazione», dove il virus è libero di replicarsi”.

Ecco perché la tutela della biodiversità non è una battaglia da considerare futile o pretestuosa o radical chic (che brutta espressione!), ed ecco perché essa influenza quello che mangiamo ogni giorno, le nostre scelte, la qualità dei nostri cibi e le nostre vite.

La biodiversità comprende la vita in tutte le sue forme, e implica la centralità della tutela di tutte le specie viventi sulla terra. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha sancito il valore di tale patrimonio nel 1992 – a Rio De Janeiro – siglando la Convenzione sulla diversità biologica, da cui è scaturito il Protocollo di Cartagena, con disposizioni vincolanti per gli Stati membri.

Quando si rinuncia alla biodiversità in agricoltura si corrono gravi rischi perché si rende facile la vita dei parassiti e si mettono a repentaglio intere filiere produttive.

Anche l’UE sta cercando di tutelare la biodiversità. Ma finora con scarso successo. Nondimeno, una nuova politica è stata recentemente adottata, nell’ambito del cosiddetto New Green Deal: una politica europea che ha l’obiettivo di fermare la perdita della biodiversità e degli ecosistemi nell’Unione europea. La nuova strategia entrerà in vigore nel 2021, dopo che verrà approvata dal Parlamento europeo e dagli Stati membri. Sarà valida fino al 2030.

Questi i punti principali:

  • entro il 2030, almeno il 25% dei terreni agricoli dell’Ue dovrà essere lavorato in biologico. Verrà incoraggiato l’approccio agro-ecologico;
  • le aree naturali protette di terra e di mare verranno aumentate, fino ad almeno il 30% del totale della superficie (attualmente rappresentano rispettivamente il 26% e l’11% del totale);
  • almeno il 10% della superficie agricola dovrà far parte di aree ad alta biodiversità, come fasce tampone e terreni a rotazione colturale (la tecnica del maggese);
  • l’uso dei pesticidi chimici dovrà essere ridotto del 50% entro il 2030;
  • riduzione anche dei fertilizzanti: le perdite di nutrienti dovute ai fertilizzanti nell’ambiente devono essere ridotte del 50% e l’uso di azoto del 20%;
  • divieto di utilizzo di pesticidi chimici nelle aree urbane dell’Ue. Qui un approfondimento.

I punti precedentemente elencati, fatti propri dalle istituzioni europee, sono peraltro coerenti con il Global Biodiversity Outlook con cui le Nazioni Unite hanno definito le basi scientifiche per un’azione collettiva urgente, che non può essere rimandata oltre per garantire il benessere umano e la salvaguardia del pianeta mediante la tutela della biodiversità.

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