La Peste Suina Africana (PSA) è arrivata in modo prepotente negli allevamenti della pianura padana, cioè in quella zona fra Lombardia ed Emilia Romagna in cui si concentra il maggior numero di capi di bestiame di tutto il Paese.

Un’area che costituisce il cuore di un’industria strategica cruenta e altamente inquinante. Dopo aver trovato maiali infetti in diverse aziende della provincia di Pavia, le autorità hanno disposto ed eseguito l’abbattimento di almeno 11mila capi.

Nel frattempo, è accaduto quello che costituisce un vero e proprio incubo per chi nei maiali non vede dei pezzi di carne ambulante, ma degli esseri viventi da rispettare e, se necessario, accudire.

La peste suina è arrivata anche in un santuario per animali liberati, Progetto Cuori Liberi, a Zinasco (PV), dove oltre trenta suidi vivono un’esistenza serena, lontana dallo sfruttamento, dopo essere stati sottratti alla catena produttiva.

La sentenza delle autorità lombarde (ATS e Commissario nazionale all’emergenza) sembra inappellabile, nonostante recenti sentenze più promettenti: tutti gli ospiti del rifugio dovranno essere abbattuti, anche quelli sani. Eutanasia, la chiamano, ma non vi è nulla di compassionevole.

Una recente investigazione dell’associazione Essere Animali ha mostrato le modalità di uccisione dei maiali infetti o venuti a contatto con questi ultimi: stipati con violenza in una serie di container allestiti appositamente, i maiali vengono sterminati col gas. Il tutto violando – ironia della sorte – diverse norme di biosicurezza.

La follia degli allevamenti intensivi: sostenere l’insostenibile

Il motivo di tanta solerzia è evidente: tutelare il settore zootecnico. La PSA non si trasmette all’uomo, ma è altamente contagiosa, soprattutto in un’area dove la concentrazione di corpi animali debilitati, stipati, malnutriti è enorme.

Del resto, la guerra ai cinghiali, per i quali il governatore Fontana ha recentemente parlato di “invasione”, ha portato il governo in carica a mobilitare prima i cacciatori e poi addirittura l’esercito, e non ha altro scopo se non la tutela degli allevamenti intensivi (il timore è che i cinghiali possano trasmettere la malattia ai suini d’allevamento).

E così, delle persone che con alcuni di questi animali hanno convissuto in una relazione paritaria, condividendo la vita quotidiana e dedicando cura volontaria al loro benessere, delle persone che hanno un legame sentimentale del tutto simile a quello che tante altre hanno con cani e gatti da appartamento, rischiano di vedere irrompere la forza pubblica e assistere alla loro uccisione sotto i propri occhi.

La mobilitazione antispecista non si ferma

Banner della Rete dei Santuari. Sullo sfondo, un maiale di profilo in mezzo alla paglia in un rifugio accudito da un umano sdraiato. Sulla sinistra, la scritta bianca su fondo arancione "Fermiamo il massacro!"

Ma il mondo dei rifugi non ci sta. Dal 7 settembre, attivistə da tutta Italia presidiano giorno e notte il paese di Zinasco, pronta a resistere in maniera nonviolenta ma determinata ed evitare il massacro.

Nel momento in cui scrivo queste righe, dopo una settimana di mobilitazione, il temuto blitz non si è ancora verificato, ma potrebbe accadere da un momento all’altro. Nel frattempo, si attende anche il ricorso al TAR, che si pronuncerà il 5 ottobre.

La posta in gioco è altissima

Anzitutto, la vita di un gruppo di esseri senzienti, fra i pochi maiali ad avere avuto la fortuna di sottrarsi al circuito dello sfruttamento. Ma non solo. La mobilitazione antispecista non si ferma e mette in luce la follia degli allevamenti intensivi.

Ora possiamo vedere a che cosa è disposto il governo per mantenere in vita un sistema crudele, malsano e devastante per il pianeta. Pur di tutelare gli allevamenti intensivi, infatti, le istituzioni non esitano a passare sopra a vite, affetti, storie personali, dimostrando che un maiale non è al sicuro neppure quando vive in un rifugio per animali salvati dalla violenza umana.

E, qualora riuscissero nel loro intento, uccidendo persino dei suidi in buono stato di salute, non affetti da peste suina, darebbero luogo a un precedente preoccupante per tuttə: per i rifugi e i santuari, per i movimenti animalisti e antispecisti, per la giustizia climatica e per ogni persona in grado di indignarsi sinceramente di fronte a un’ingiustizia.

Per questo chiedo, a chiunque avverta in cuor suo l’angoscia e la rabbia per questa ennesima dimostrazione di violenza istituzionale, di rispondere alla chiamata, raggiungendoci sul posto per portare il proprio corpo come strumento di resistenza, seguendo le indicazioni via via disponibili sul profilo Instagram della Rete dei Santuari.

Per l’alleanza fra abitanti del pianeta, costruiamo forme di solidarietà attiva.

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