È da poco uscito un testo che consiglio caldamente e che ho trovato particolarmente significativo: La rivoluzione poliamorosa scritto a quattro mani da Natan Feltrin ed Eleonora Vecchi.

Ho avuto il piacere di incontrarli ed intervistarli circa questo piccolo gioiello che – aprendo la mente a strade dell’affettività che la società vuole forzatamente precluderci – è in grado di interconnettersi e riflettere circa il futuro del nostro mondo da un punto di vista filosofico, pratico e politico.

È un saggio, quello di Eleonora Vecchi e Natan Feltrin, che pur partendo da presupposti biografici, apre a questioni che vanno ben oltre le segrete mura dell’individualità proprio seguendo quella regola per cui ogni personale è anche politico, ma, soprattutto, la lezione del mio amato Wittgenstein: non c’è filosofia senza biografia.

Questo testo presenta una prospettiva biografica in cui viene narrata la storia di Natan ed Eleonora come coppia; il poliamore è una visione che si vive in coppia oppure il singolo individuo può essere definito poliamoroso? Cioè, come voi raccontate nel libro, le vostre storie poliamorose sono finite ma la vostra coppia è rimasta intatta, come potete spiegarci e approfondire questo aspetto: come si vive il poliamore?

Eleonora: si parla di persona poliamorosa o si può parlare di relazione poliamorosa che può essere un duo o un trio o polecola quando si parla di un diverso rapporto tra partner e meta-partner. Nel caso mio e di Natan più che di coppia, che è un concetto che riserva un sapore estremamente monogamo, preferiamo definirci un duo poliamoroso. In genere credo che il motivo per cui io e Natan siamo rimasti uniti e le nostre relazioni poliamorose siano invece terminate sia legato al fatto che le persone con cui ci siamo uniti fossero tutte alla loro prima esperienza poliamorosa e non avessero quindi alcun modello di riferimento; pertanto per loro era difficile accettare o mettersi nell’ottica che una relazione di questo tipo potesse funzionare, molto spesso sono state anche le circostanze ad influenzare queste situazioni e che le condannava a finire: le persone con cui avevamo intrapreso la relazione si auto-limitavano non credendo che questo tipo di rapporto potesse effettivamente avere una solidità.

Natan: io sono una persona che ha sempre posto l’amicizia come un caposaldo della mia vita, come qualcosa che anteponevo anche alle relazioni monogame. Generalmente non ho mai avuto il desiderio di vivere in un nucleo famigliare chiuso, ma ho sempre navigato in maniera più reticolare le relazioni per cui per me sono solo delle sfumature che differenziano (?) amicizia e amore, pertanto sono entrambi concetti che vanno pensati ed approfonditi; le relazioni poligame che abbiamo intrattenuto hanno avuto una configurazione casuale e contingente che tendeva anche a durare poco, ma ognuna di esse si è trasformata in un’amicizia profonda e quindi tutto tranne che un fallimento. E quindi al contrario di come terminano molte relazioni monogame che anche io stesso ho avuto e che sono sfumate in una relazione distante, asettica andando quasi del tutto a scomparire. Altro fatto da comprendere è quanto sia difficile mantenere una relazione in un contesto come quello della società di oggi – il tardo-capitalismo – che ti impone dei ritmi e delle distanze che sono difficili da coadiuvare con una relazione da intendersi nella pienezza del suo contenuto. Importante è comprendere che una relazione non “funziona” perché dura nel tempo, ma a partire da quello che ti dà e già questo a mio avviso è un cambio di prospettiva significativo. Il fatto che io ed Eleonora ad oggi possiamo apparire come “coppia” non lo vedrei come un fallimento delle dinamiche poliamorose ma piuttosto come un fatto di contingenza in cui si vanno ad unire sia una mentalità ostile ma anche una dimensione tardo-capitalista che impedisce di fatto la creazione di comunità che possano vivere e persistere assieme nello stesso luogo.  

Poliamore e gelosia

La gelosia è una delle questioni che maggiormente approfondite nel testo: non credete che l’esclusività con cui noi leggiamo i legami sia causata anche e soprattutto dall’esclusività attraverso la quale la madre nutre e si occupa del proprio figlio? Una delle riflessioni che mi ha maggiormente spinta verso il vostro saggio è proprio questa: se invece di avere come riferimento un unico caregiver o una coppia di caregiver vi fosse una comunità fatta di molteplici figure non credete che anche il nostro senso della relazione e il nostro modo di declinarla si modificherebbe?

Eleonora: sì assolutamente, crediamo che il modello di famiglia nucleare sia un grande problema sociale perché fa rinchiudere ed alimenta una visione monolitica ed individualista di cosa sia la cura, la relazione, limitando quanti e quali persone possono prendersi cura di… Se già dall’infanzia avessimo più figure parentali e genitoriali o una comunità ampia che si prendono cura delle figlie e dei figli si modificherebbe anche il nostro modo di percepire come è fatta una relazione. Infatti, noi nel libro facciamo riferimento a Donna Haraway (anche se lei non parla mai espressamente di poliamore) e del suo modello postumano: di famiglie formate da più persone, più specie e quindi comunità che si prendono cura di pochi individui nati ma con più attenzione e raccoglimento e responsabilità, flessibilità, gioia e meno dramma di quello che adesso invece viviamo affidandoci esclusivamente alla cura di due persone che restringono molto il nostro modo di intendere l’affetto e di interpretare la famiglia.

Natan: il postumanismo necessita di sancire delle pratiche di vita legate al suo assetto teorico, mi domando: cosa c’è di più importante e concreto del modo in cui noi costruiamo la famiglia? E credo che noi stiamo riproponendo un modello di famiglia hegeliano che serve a nutrire un certo tipo di idea statalista. Quindi, nel momento in cui noi vogliamo decostruire queste idee, in un pianeta sovra affollato come il nostro, è necessario riformulare questi assetti ripensandoli. La monogamia tossica, quella legata principalmente a due concetti, possesso e gelosia, può essere delegittimata, ma per farlo sono necessarie sia la filosofia sia le pratiche. Quindi il poliamore potrebbe evolvere da semplice pratica amorosa a un’azione politica nel senso forte del termine divenendo una rivisitazione di dinamiche sociali ormai date per scontate, ma che possono essere ripensate e declinate secondo forme differenti.

Si parla molto di famiglie queer oggi e del diritto di scegliere, oltre quelle che sono delle determinazioni di natura genetica, quali siano gli individui che “vogliamo vicini” (pensiamo al dibattito aperto da Michela Murgia proprio in queste ultime settimane): il poliamore potrebbe appunto tratteggiare una nuova forma interpretativa della realtà in cui i legami vengo scissi da un orizzonte prettamente deterministico legato esclusivamente a parentele “legalizzate”?

Eleonora: sì, certo! Credo che le famiglie queer siano molto importanti perché non poter scegliere a chi legarsi sottende una forma di violenza collegata al determinismo genetico basato su contingenze che non possiamo scegliere. E’ importante riscoprire un aspetto fluido della relazione, che non significa certo superficiale, quanto piuttosto esplicita la possibilità di aprire scenari di scelta nei riguardi non solo di ciò che siamo, ma di chi preferiamo avere vicino nel nostro percorso di vita oltre uno stretto determinismo genetico. Controllo e gelosia sono dispositivi che evidentemente emergono anche dall’impostazione rigida e deterministica di famiglia che abbiamo coltivato nella nostra cultura fino ad oggi, ma sono modelli che di fatto collidono con la possibilità di creare un futuro generativo.

Natan: per me sono essenzialmente tre le violenze a cui mi ha sottoposto la modernità: la prima è quella di dovermi appropriare di corpi di animali senzienti attraverso l’alimentazione, la seconda è stata quella di dover appartenere a un sistema educativo che non mi ha cresciuto come un individuo ma come un pezzo di un puzzle che doveva andare a riempiere un tassello produttivo del sistema e l’altra è la brutalità con cui mi è stato chiesto di aderire a un certo e specifico assetto affettivo, impedendomi di esprimermi pienamente per quello che ero. Queste violenze si intersecano reciprocamente e quindi quando si parla di famiglia queer si parla anche di famiglia postumana in cui si intrecciano animali umani e animali non umani, perché il poliamore è anche questo: è la pluralità di modi di amare non solo esseri umani, ma anche esseri non appartenenti necessariamente alla nostra specie e quindi la possibilità di una pluralità di direzioni che l’amore può prendere. I modi di costruire la propria identità sono poliformi, ecologici e non unidirezionali. La famiglia queer è di fatto un atto di resistenza alla repressione della nostra condizione di essere animali umani e quindi individui che non hanno una natura prestabilita ma che evolve, che è dinamica e legata al nostro carattere affettivo sensuale, animale.  

La rivoluzione poliamorosa e il coming out

Un’altra cosa che mi ha particolarmente stupita nel vostro lavoro è stata quando parlate di coming-out. Ho trovato stridente questo concetto, in quanto non credo che il poliamore sia una questione di essenza e quindi di identità: per semplificare non si tratta di dire “io sono fatto così” quanto piuttosto un vivere secondo una prospettiva differente il concetto di amore e quindi di estenderlo; come dite voi, l’amore non è una riserva limitata. Ha dunque senso effettivamente parlare di coming-out o è la mentalità della società a cui siamo assoggettati che obbliga a dover dire una cosa che non deve necessariamente essere esplicitata? 

Eleonora: per alcune persone il concetto di poliamore non è solo una questione di scelta ma anche di identità legata alle necessità affettive. Fare coming-out per me, in questo momento, è un’azione politica perché è prendere la parola e andare contro un mondo che ci impone delle modalità affettive prestabilite e determina a priori quale sia la nostra possibilità espressiva legittimata. Quindi credo che fare coming-out sia un mettersi in luce e anche fare parte di una rivoluzione affettiva che sta avvenendo e anche che dovrà avvenire affinché diventino possibili nuove declinazioni politiche e sociali fondamentali per il futuro della specie umana.

Natan: il coming-out è per me innanzi tutto una questione politica giacché esso non dovrebbe essere necessario, ma a tutti i livelli, non solo quello del poliamore, se la società fosse già aperta sufficientemente ad includere una diversità che in questo momento non è in grado di includere; per cui fare coming-out non è solo un atto liberatorio per la soggettività, ma anche un’azione che vuole aprire una breccia in un muro che è basato su tradizioni che bloccano la possibilità libera di espressione. Il poliamore si fa, lo si può applicare, ma poliamorosi anche si è. Una persona può scoprirsi poliamorosa prima, dopo, può non esserlo mai. Io sono sempre stato una persona poliamorosa perché mi è sempre stato difficile incanalare tutte le mie attenzioni e cure verso una persona sola e questo non in quanto questa cosa non mi fosse possibile, ma perché la sentivo come una costrizione giacché spontaneamente ero un fiume che si ramificava tuttavia senza perdere potenza. È la società che ti propone un modello che incasella e obbliga a una certa forma di vivere ed esprimere l’affettività, il punto è capire quanto questo modello possa rappresentare la nostra intima natura.  

“Accettare il poliamore significa anche accettare questa realtà: noi non saremo sempre il centro gravitazionale di tutta la rete”.

Questo è un passo molto significativo del vostro lavoro giacché rappresenta come non solo l’individuo ma l’essere umano in generale (la humanitas umanista) si sia sempre voluta porre al centro di un universo che voleva sussumere e possedere. Credo che il poliamore possa diventare una di quelle pratiche che possano guidare la nuova realtà di un universo post-umano, giacché sostituisce la dinamica della competizione a quella della collaborazione e, nel suo andare avanti, torna indietro giacché è stata proprio la capacità di collaborare di Sapiens a rendere possibile la sua evoluzione e sopravvivenza sul pianeta. È quindi possibile che il proprio il poliamore inauguri una prassi post-umanista che renda possibile superare questo empasse storico e culturale? E, se sì, voi come ve la configurate? Come può il poliamore essere un faro per un differente stare nel mondo? 

Natan: credo che il messaggio più prezioso del poliamore come tutta quella che è la filosofia eco-centrica sia quello di decostruire l’immagine dell’umano come centro di tutto l’universo. Noi non siamo solo uno dei nodi della rete della realtà e, se osserviamo con più attenzione questa prospettiva, è estremamente bella e più costruttiva. Si tratta di affermare se stessi non a discapito degli altri ma attraverso gli altri, proprio come sottolineiamo più volte nel libro, e quindi di valorizzare ogni singola cosa agendo in un senso che sia individuale ma anche collettivo. È importate riscoprire e ripensare il concetto di dipendenza: non tutte le dipendenze sono sbagliate giacché intrinsecamente noi siamo dipendenti dalla realtà tutta già nel momento in cui veniamo al mondo anche da un punto di vista ecologico; il poliamore mette ancora più in evidenza questa rivoluzione ontologica, esso accompagna una rilettura dell’identità umana e la declina in un nuovo modo di pensare le relazioni e la società. Il poliamore, infatti, non è un concetto che ha a che fare esclusivamente con la sfera sessuale ma con una revisione della nostra identità che vada a distanziarsi dalla lettura cartesiana di res cogitans e res extensa e che restituisca al corpo umano la sua animalità e la sua sensualità – essere senziente – prima ancora che sessuale. La relazione, infatti, non avviene solo attraverso la parola ma può avere e deve avere anche connotazioni sensoriali, tattili perché la realtà passa anche attraverso la nostra pelle: per questo è fondamentale riappropriaci della consapevolezza di essere delle entità sensuali e sessuali e per questo emotive. Il poliamore inteso come progetto sociale deve essere un decostruire tutto quello che ci è stato cucito addosso come se fosse l’unica modalità di poter stare nelle relazioni e nel mondo. Diversi studi mostrano come fondare le parentele sul “sangue” sia servito allo scopo di costruire uno stato facile, organizzabile e quantificabile e in questo modo più agevolmente controllabile. Il poliamore spaventa perché rimette in discussione questa forma di vivere normalizzata e pertanto controllabile, sposta i confini politici ma anche geopolitici. Il poliamore non è la soluzione a tutti i problemi della società, ma sicuramente è una strada che piò indicare una possibile rinascita e per questo è un concetto che la società deve accogliere ed intraprendere in tempi brevi.

Eleonora: il poliamore racchiude molti temi della filosofia postumanista. In primis la libertà di scoprirsi come corpo: non avere un corpo ma essere un corpo con delle fragilità, dei desideri senza rigettare né uno né l’altro. La nostra animalità si fonda su questo essere un corpo e il poliamore nella sua declinazione sensoriale, sensuale e sessuale porta a questa riscoperta della corporeità. Questo percorso di scoperta del nostro essere corpo non necessariamente deve essere pacificatorio, può essere anche estremamente burrascoso perché siamo stati cresciuti con una visione del concetto di affettività molto ristretta e, quando si va ad aprire questo vaso di Pandora, molte persone possono rimanerne non solo stupite ma anche traumatizzate; tuttavia, è quel trauma che ci aiuta a scoprirci e dare vita a nuovi modelli di mondo. Noi non siamo il centro nevralgico dell’ecosistema, come non siamo il centro della vita delle altre persone, essere poliamorosi richiede un esercizio di affettività condivisa e soprattutto di umiltà al fine di condividere assieme tutte le risorse non solo quelle utilitaristiche ma anche le risorse affettive, umane che abbiamo e ciò anche con il mondo e gli ecosistemi in cui siamo vissuti perché tutte le connessioni sono sempre più che umane. Il poliamore aiuta a realizzare che le nostre connessioni sono oggettivamente molto più ampie anche di quelle che consciamente viviamo secondo un principio di inclusione che è sempre oltre-umano, più che umano.  

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