Qual è il ruolo dell’umorismo in classe? Sembra una domanda banale ma non lo è. Se infatti, prendiamo in considerazione alcuni filmati che circolano in rete che mostrano un insegnante dileggiato dagli allievi perché colpito da un mastello di plastica lanciato da un banco, per mano di un adolescente, possiamo rabbrividire a quelle immagini. Tuttavia, se alziamo l’audio del filmato, si sente in sottofondo la risata di tutta la classe, compresa quella del vigliacco lanciatore che si risiede subito dopo il misfatto, per non essere individuato dal docente appena colpito.

Cosa c’è da ridere? Penseremmo noi, dall’alto del nostro rassicurante buon senso. La stessa impressione la potremmo ricavare dal video della docente impallinata, di recente assurto agli onori della cronaca nazionale; oppure da altri episodi simili, sempre reperibili in rete. Il timore, poi, è che ce ne siano molti altri che non siano stati documentati dagli smartphone.

Dunque, è questo il senso dell’umorismo degli studenti oggi?

Io credo che il punto essenziale sia un altro. Quello che manca per certi versi ai nostri ragazzi è una chiara e sensata prospettiva di affettività. Perché le risate suscitate dai fenomeni di aggressività nei confronti di compagni o docenti, con tanto di pubblicazione sui social, denotano comunque un’errata espressività di sentimenti. Si ride, insomma a scuola, ma si ride male.

Che film far vedere in classe?

Lo sostengo, come controprova, anche quando agli stessi studenti si mostrano filmati che, per il repertorio della nostra comicità, appartengono ormai al genere dei classici. Per esempio, quando in aula si proietta la parodia dei Promessi sposi del Trio (andata in onda sulla Rai negli anni Novanta), la gran parte degli allievi non reagisce e resta misteriosamente seria. Per quale motivo?

Perché non coglie il senso profondo dell’umorismo di quello sceneggiato e non ne percepisce, per dirla alla Pirandello, il sentimento del contrario.

È anche vero che a quell’età i ragazzi ridono più che altro per prendere in giro e per schermirsi a loro volta da altri sfottò. Ma la ragione più profonda è un’altra: manca, cioè, da parte giovanile, quella consapevolezza della serietà e della tragicità, del cui opposto si può anche sorridere. Così come ha fatto Roberto Benigni ne La vita è bella, usando il grottesco del proprio personaggio per mettere ancora più a nudo l’orrore dei campi di concentramento.

Una conferma a questa mia tesi mi è venuta di recente alla visione al cineforum scolastico di C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Chi ha visto la pellicola, sa bene quanto certe sequenze in romanesco siano state studiate per far ridere e soprattutto per far riflettere: in questo caso, l’umorismo diventa veicolo ermeneutico del tema della violenza contro le donne, aiutando a comprenderla ancora più a fondo nella sua valenza drammatica.

Eppure, i ragazzi in sala non hanno mai riso, non perché non volessero farlo, ma perché non capivano se quello fosse il contesto o il momento giusto. È dunque così? Quella dei giovani oggi è solo una comicità di pancia oppure nasconde una più profonda anaffettività? Se fosse così, dobbiamo arrenderci al fatto che neanche l’umorismo sappia più stimolare il pensiero divergente?

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