Il silenzio forzato del teatro aiuta il riscrittore ad ingegnarsi nella ricerca di temi, progetti e personalità interessanti. In un territorio di confine opera Marco Angelilli, a sua detta instancabile ricercatore nel gioco della fisicità dedicata al teatro (ma non solo). Incontriamo con lui un campo di azione quasi sconosciuto ai più e prezioso.

Antonio Calbi ti ha definito un drammaturgo dei corpi… in cosa consiste esattamente il tuo lavoro?
In cosa consista “esattamente” il mio lavoro, io non credo di saperlo. Il mio approccio con il corpo e il movimento non è una tecnica, non è una disciplina, non ha nulla di sportivo o di militare, non è legato al concetto di sforzo o di superamento del limite. Mi piace pensare a una lunga infinita indagine, a un processo in  continuo mutamento che conduco e condivido con i miei compagni di viaggio. Mi metto in dialogo con i miei interlocutori, sullo stesso piano. Il mio modo di vedere il teatro non contempla strutture piramidali o gerarchiche. Parlo nello stesso modo ad allievi e maestri, a danzatori e performer, ad attori e registi: mi metto accanto a loro alla ricerca di qualcosa che all’inizio del percorso è molto difficile da percepire, a metà del lavoro sembra impossibile da trovare e poi, a un certo punto diventa visibile e ogni volta è una esperienza sorprendente. Le partiture fisiche a cui giungo per me sono come delle mappe o dei traguardi intermedi. Mi fa molto piacere che l’occhio esperto e sensibile di Antonio Calbi mi definisca un drammaturgo del corpo, ma forse io sono più un ricercatore che un drammaturgo. Forse.

Come ci si forma a questo compito e che differenze ci sono con chi proviene dalla classica coreografia legata al mondo della danza?
La mia formazione è un manifesto dadaista. Ho evitato i percorsi ufficiali e sono andato a cercarmi tante esperienze differenti anche fuori dall’Italia. Alla laurea in lettere, alla formazione Feldenkrais, allo studio del teatro classico, del teatro di ricerca e della danza in tutte le sue declinazioni, ho voluto aggiungere tante altre esperienze che non sono spendibili in un curriculum ufficiale ma che mi hanno reso diverso e che sono state un nutrimento prezioso. Non sono uno che arriva in sala prove con una coreografia scritta. Guardo chi ho davanti e mi metto in ascolto e poi i temi, come dice Borges, ci vengono a cercare.

Non c’è lavoro senza difficoltà

Quale è stata una delle tue maggiori soddisfazioni e quale invece difficoltà imprevista hai voglia di condividere con noi?
Non so rispondere a questa domanda. Le soddisfazioni le ho avute ma non sono uno che pensa al passato, che fa classifiche o scrive liste mettendo in ordine le esperienze fatte. Sono molto più interessato a quello che deve ancora venire. Quanto alle difficoltà, a volte le affronto sorridendo a volte esplodendo o implodendo, ma non sono impreviste, anzi. Non ricordo di aver fatto alcun lavoro in assenza di difficoltà.

Con questo surplus attuale di dirette, zoom e vari web habitats come è cambiato il lavoro di Marco Angelilli?
I cambiamenti mi piacciono sempre. In questo periodo però c’è un po’ di frustrazione oltre all’eccitazione di usare un nuovo linguaggio. Sono in una fase di transizione. Sento che per ora sto modificando quello che facevo prima per adattarlo ad un altro mezzo e invece vorrei inventarmi qualcosa di più specifico e completamente nuovo per me.

Attualmente la tua attività di riscrittore di corpi si è estesa anche alla moda: vuoi parlarcene?
Qualche anno fa, grazie al bravissimo costumista e mio amico Gianluca Sbicca, ho incontrato Antonio Marras che non è esattamente uno stilista ma un artista che si esprime anche attraverso la moda. Mi ha fatto entrare nel suo mondo, nella sua stanza degli orrori e degli amori e mi ha chiesto di dare corpo alle sue visioni. E abbiamo giocato.

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