Stupid, crazy, lovely food! Il cibo in tre contraddizioni
Che cos'è il cibo? Un piacere, un mezzo per sfamarci, un diritto, o un business? E' tutto questo insieme. Ecco perché dobbiamo trovare la sintesi.
Che cos'è il cibo? Un piacere, un mezzo per sfamarci, un diritto, o un business? E' tutto questo insieme. Ecco perché dobbiamo trovare la sintesi.
Che cos’è il cibo? Domanda banale, si direbbe. Eppure, in realtà piuttosto complessa a ben vedere.
È solo il mezzo con cui ci sfamiamo e ci nutriamo, per sopravvivere? Molti di noi risponderebbero di no. Eppure, per alcuni è veramente così.
È un piacere? Sicuramente. Ma non per tutti.
È un diritto fondamentale da garantire in ogni caso? Non c’è dubbio. Ma per molti è invece soprattutto un business, grazie al quale arricchirsi.
Tutto questo rende la domanda iniziale niente affatto banale o semplice, anche sotto il profilo giuridico e della regolazione pubblica del settore alimentare. Dove sta il momento di sintesi e come dobbiamo pensare il cibo? E quindi, conseguentemente, come devono agire le istituzioni che hanno il potere e il dovere di regolare questo settore prevedendo divieti, disponendo incentivi, favorendo buone pratiche, sanzionando azioni scorrette e tutelando i più bisognosi?
Si possono quindi mettere in luce tre conflittualità che caratterizzano il mondo dell’agro-alimentare e la sua regolazione oggi. E poi altrettante proposte per individuare percorsi futuri.
La prima contraddizione concerne l’eterogeneità delle culture agro-alimentari e, al tempo stesso, la loro necessaria integrazione. La storia del cibo è da sempre caratterizzata da combinazioni e commistioni tra diversi tipi di alimenti, ricette e tradizioni gastronomiche. La pasta al pomodoro, ad esempio, pur essendo un simbolo della cucina italiana, usa i tomatoes importati grazie alla scoperta dell’America e i noodles, gli spaghetti, copiati dai cinesi grazie ai viaggi di Marco Polo. Ma è solo un esempio: potrei menzionare anche le numerose ricette siciliane, di origini arabe (si pensi al cous cous), o quelle del Nord Italia, che riprendono, a seconda, la gastronomia francese, svizzera o austriaca (la fonduta, i formaggi, lo speck, lo strudel).
Al tempo stesso, però, le tradizioni alimentari sono anche molto diverse e molto divise. Solo in Italia, nelle diverse regioni o città, ci sono modi diversi di combinare o cucinare, ma anche concepire, determinati alimenti o ricette. Ecco quindi che il cibo è comune, globale, internazionale, ma al tempo stesso anche fortemente – a tratti esclusivamente – locale. È unione e al tempo stesso divisione, per meglio dire distinzione. E ciò ha effetti anche sul piano giuridico perché le regole sul cibo – per esempio quelle che determinano quando un cibo è sicuro o se a questo possa essere riconosciuto un marchio di qualità – devono seguire una visione comune, valendo quindi per tutti, ma a volte sono chiamate ad assecondare istanze e bisogni fortemente locali, che impongono regole diverse a seconda dei territori. Quindi la prima dialettica è tra il bisogno di norme comuni, globali, e la necessità di mantenere anche discipline distinte, locali e particolari. Tra necessità di armonizzazione e necessità, contrapposta, di evitare un’eccessiva standardizzazione.
La seconda contraddizione riguarda quantità e qualità. Il cibo deve essere tanto, in modo da favorirne l’accesso per tutti, ma il cibo deve anche essere buono e non nocivo. Deve essere, per usare un’espressione della FAO, adeguato. Sia nelle quantità, sia in merito a qualità e sicurezza. Di qui, può crearsi una contraddizione – anche se il meccanismo è tutt’altro che automatico – per cui una produzione molto elevata – per esempio di origine agroindustriale – può ridurre la qualità del cibo. Oppure regole troppo stringenti in termini di qualità e sicurezza possono danneggiare i produttori, che avranno maggiori costi nel produrre cibo, che quindi sarà più scarso o più difficile da reperire. Anche in tal caso, quindi, le norme che regolano la materia alimentare devono mirare a garantire qualità e sicurezza, senza danneggiare in modo sproporzionato e irragionevole la produzione quantitativa e la distribuzione del cibo. La seconda dialettica è quindi tra quantità e bisogno da un lato e qualità e sicurezza/salubrità dall’altro.
Infine, la terza contraddizione riguarda il concetto di cibo in sé. Si tratta di qualcosa di assolutamente indispensabile: tutti devono mangiare. E tuttavia il cibo è anche un business, giacché quello alimentare è uno dei mercati più fruttuosi e dinamici del mondo. Anche per questo tale settore ha ormai rilevanza globale, con l’esigenza di muovere merci alimentari per migliaia di Km. Al contempo, il bene cibo non è una merce qualsiasi: si tratta infatti di un prodotto necessario, perché, come detto, tutti hanno diritto a nutrirsi; di un prodotto che deve essere sano, perché dal consumo alimentare non devono aversi effetti nocivi; e infine buono, perché il nostro approccio al cibo è anche quello del piacere e del benessere spirituale che traiamo dal mangiare.
Di qui, anche le norme devono tenere in conto questi aspetti: da un lato, evitare di essere di intralcio a un settore economico decisivo per l’economia mondiale, dall’altro, assicurare che la logica del profitto non incida negativamente su distribuzione, sicurezza e qualità dei prodotti alimentari. L’ultima contrapposizione dialettica riguarda il cibo sia come oggetto di intrapresa economica, sia come mezzo di sostentamento necessario per vivere.
Come affrontare queste problematiche? La risposta è destinata a rimanere aperta, ma vale la pena rifletterci e cominciare a pensare dei percorsi per ognuna delle criticità presentate:
In primo luogo, le norme che regolano il cibo devono essere globali, comuni, ma devono essere previsti meccanismi e strumenti di deroga a livello nazionale e locale, per tutelare interessi prevalenti, come la salute (per es. il principio di precauzione).
Secondo: la qualità e la salubrità del cibo non devono andare in contrasto con la quantità della produzione. Come? Con l’intervento pubblico, su scala mondiale: incentivi, sostegno all’agricoltura, diffusione di programmi di aiuti, controllo dei prezzi e dei mercati.
Infine, sebbene sia giusto che chi investe nell’agroalimentare ottenga i meritati guadagni di tale intrapresa, occorre che vi sia uno standard minimo di tutela, per cui nessuno possa morire di fame. Anche per tale aspetto, quindi, le autorità pubbliche devono correggere le market failures che producono malnutrizione e insicurezza alimentare.