Una delle lezioni fondamentali che ci consegna la filosofia post-umanista è quella secondo cui l’essere umano non sarebbe un’essenza, e ciò sia da un punto di vista filogenetico (la nostra storia di specie) sia da un punto di vista ontogenetico (la nostra storia come persone-soggetto).

Noi “siamo le parole dell’Altro” dice con forza Jacques Lacan, mentre Jean-Paul Sartre nel suo testo Santo Genet (una biografia dedicata a Jean Genet autore di Storia di un ladro) scrive:

“l’importante non è quello che fanno di noi, ma quello che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”.

Da entrambi gli autori emerge così il tema dell’origine, ovvero da dove veniamo se siamo, di fatto, un’eredità consegnata da altro.

In entrambi gli autori questo altro può avere molteplici raffigurazioni anche se emerge con preponderanza la dimensione dell’infanzia: che cosa è l’infanzia? Perché essa ha una forza così pervasiva all’interno della nostra vita e del processo di crescita e di identità che dobbiamo condurre nella vita adulta?

L’infanzia e la soggettività

Sia Lacan che Sartre, infatti, considerano la soggettività come un atto mai compiuto e in questo toccano da vicino una delle lezioni del post-umanismo che, con le parole di Roberto Marchesini, ci insegna che il soggetto non ha approdo, ma è sempre e solo percorso da tappe.

Ciò che ne desumiamo quindi è l’impossibilità di possedere una soggettività immobile e stentorea, che il soggetto non esiste, quanto piuttosto un processo di soggettivizzazione costante che spinge l’individuo a farsi carico della responsabilità del proprio io.

Ed ecco che torna con forza quindi la questione dell’infanzia: essa è per definizione un mai superato (Freud, Sartre, Lacan concordano su ciò) è qualcosa che in qualche modo ci ha dimensionato e consegnato al mondo: questo è ciò che intende Sartre quando ci dice che noi siamo quello che facciamo di ciò che hanno fatto di noi e ancora che il bambino è costruito come oggetto dell’altro.

Non c’è scampo dalla nostra infanzia: tutti vaghiamo per le stanze del tempo passato con un piccolo lumino che minaccia costantemente di spengersi per comprendere cosa ci sia stato fatto: cosa siamo stati nelle mani degli altri quando siamo stati oggetto della costruzione delle opere altrui e come diventare noi? Chi siamo noi?

È questo emergere di una dimensione soggettiva che ci chiama alla vita: questo essere per forza oggetto di un mondo che ci reclama e ci forma, ma nel quale al contempo abbiamo il dovere di imprimere il nostro gesto creativo, il nostro atto di soggettivizzazione per fare nostro, per tradurre in parole nostre, ciò che gli altri hanno detto di noi.

È in questa dimensione creativa (anche se con le dovute differenze) che il pensiero di Jean-Paul Sartre può essere messo in costellazione con quello del filosofo post-umanista Marchesini: in Etologia filosofica viene data una definizione del concetto di libertà che io ho sempre trovato estremamente interessante; scrive Roberto Marchesini:

“[libertà è] essere sovrani di un regno che non abbiamo scelto”.

Questo vale per la nostra declinazione di specie secondo Marchesini, ma può perfettamente traslarsi – come vedremo nelle opere successive del pensatore, per esempio, The creative Animal e Posthumanist Manifesto (testo in corso di pubblicazione) – nel processo di appropriazione della propria identità.

È proprio in queste opere, infatti, che Roberto Marchesini mette in luce come il soggetto non sia un approdo stabile, ma sempre e solo un percorso fatto di tappe, di come l’atto di soggettivizzazione implichi necessariamente un’azione di creatività circa il mondo e noi stessi.

È proprio per questo aspetto che credo si possa accogliere la lezione dei tre pensatori (Sartre, Lacan, Marchesini) per comprendere come poter processare la nostra identità oltre la spirale del conformismo o meglio oltre le parole dell’altro e quindi risignificare la nostra infanzia senza esserne succubi passivi.

Lacan ci consegna un’immagine molto bella: egli, infatti, ci dice che noi siamo come un poema che viene scritto dall’altro, ma che il nostro scopo è quello di diventare poeti: nell’atto di imprimere le nostre parole sul mondo, pur nell’impossibilità di svincolarci completamente dalle parole dell’altro, ecco che il nulla (Sartre), che rischia di irretire le nostre vite, può fare quel passo indietro per trasformarci da oggetti (in-sé) in soggetti (per-sé). È, direbbe Roberto Marchesini, quella chiamata desiderante al mondo che ci porta ad essere soggetti creativi, sono le affezioni (desiderio ed emozioni) a distinguerci come soggetti e non la coscienza.

E anche in questo passaggio il filosofo post-umanista tocca un altro argomento particolarmente caro a Lacan: non è la coscienza il fulcro del soggetto. Lacan arriva ad affermare in antitesi al cogito ergo sum di Cartesio “penso dove non sono, dunque sono dove non penso”: il soggetto non trova il suo luogo d’essere nel cogito, negli atti di coscienza o nella ragione quanto nella sua pulsione desiderante, nel suo essere fuori da sé stesso, nel suo darsi quale oggetto del mondo per poi operare un azione di trascendenza e divenire soggetto (Sartre).

Questo richiamo al mondo e da parte del mondo ha il dovere di infrangere le aspettative, ciò che altri hanno pensato per noi. E’ il desiderio che non ci appartiene a portarci alla vita – quello dei genitori – sono narrazioni che non ci coinvolgono che ci sostengono nella crescita: si può scegliere se dimensionarsi alla lingua dell’altro o tentare di scrivere la propria storia oltre quello che il mondo (che siano i nostri genitori, amici, famigliari o la società stessa) ci ha richiesto di essere.

Il rischio appunto è quello di vivere tutta la propria vita nella malafede (direbbe Sartre) oppure scegliere di percorrere quell’ardita strada che si affaccia su un burrone profondo e lacerante (l’infondatezza e il nulla che domina l’esistenza) per cogliere la nostra missione nella vita.

Ecco quindi che si crea un moto altalenante: nel comprendere l’infondatezza della fatticità del nostro essere, di ciò che ci è stato consegnato dall’altro, possiamo percorrere quella via di salvezza la quale però deve necessariamente affacciarsi sul burrone del nulla (J.P. Sartre, La nausea).

Sono temi sicuramente complessi che andrebbero approfonditi con cura giacché si tratta di ricomprendere il soggetto oltre quella dimensione essenzialistica, meta-riflessiva e razionale che ci ha consegnato la tradizione occidentale, ma capire come si sia già, in tempi non sospetti, e quindi a metà del Novecento (forse ancor prima con Nietzsche), aperta una falda, una fessura nella dimensione dell’interpretazione della soggettività è fondamentale.

Rivisitare il passato in vista del futuro

Ma, se il soggetto è una tappa e mai un approdo, allora che ne è dell’infanzia? Che ne è delle parole dell’altro che hanno crivellato la superficie del nostro essere e ci hanno reso l’interpretazione di ciò che siamo? Per comprendere bene questo passaggio, e quindi come rivisitare il passato in vista del futuro, per rielaborare questa eredità pesante e a volte lacerante – come ci indica Massimo Recalcati nel suo testo Ritorno a Jean-Paul Sartre è necessario un lavoro costante sul proprio vissuto.

Non basta ancorarsi ad esso bisogna rimestarlo costantemente affinché non si tramuti in una condizione inchiodante che impedisce un’azione nel futuro: non si deve rimanere rinchiusi nelle stanze della propria infanzia senza avere la forza di reinterpretarle, di riscriverle, appunto, come insegna il magistero di Lacan.

Diventare poeti della propria vita significa non solo non permettere al passato di congelarci in una condizione di non-vita, quanto piuttosto di continuare a rimaneggiare quelle carte vecchie ed ingiallite dal tempo per riuscire a risignificarle nuovamente nel corso della nostra vita in termini non lineari ma puntiformi.

Se l’infanzia è l’insuperabile, essa può al contempo essere riletta e re-interpretata o meglio ri-significata a seconda di ciò a cui la vita ci sta chiamando in quel momento. Perché per quanto sia vero che noi siamo oggetto nelle mani degli altri, è altrettanto vero che possiamo divenire soggetto che con la propria mano scrive qualcosa circa se stesso: non possiamo selezionare le occorrenze della nostra vita – e quindi non possiamo scegliere cosa debba accaderci – ma possiamo decidere come affrontare queste e cosa fare di questa cosa che siamo noi affinché essa non sia più una cosa nelle mani degli altri ma un soggetto: scrivere la propria storia.

Proprio come il Genet di Sartre che nonostante da bambino fosse stato definito ladro ebbe la forza di divenire scrittore.

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