(English translation below)
Si varca il Padiglione del Belgio alla Biennale di Venezia e si entra nell’utilità suprema del gioco, ovvero nella lezione che insegna ai visitatori, a noi esseri sensibili, a sfidare ciò che ci circonda quotidianamente, ad azionare i meccanismi della metamorfosi, a viaggiare ai quattro angoli del mondo dove i bambini hanno piantato le bandiere del loro reame.

La sorpresa, la spettacolarità della decina di video presentati, è tale che The Nature of the Game di Francis Alys è il padiglione più glorioso e da solo vale tutta la Biennale. L’idea è semplicissima: andare dal Messico al Congo, dal Belgio alla Cina, e riprendere i giochi di strada dell’infanzia, divertimenti da niente e spesso universali, eppure veri atti di crescita, di arte, di costruzione del sé e del noi, spesso partendo dal nulla. 

Tre ragazzine hanno solo una corda ciascuna per saltare, e tra i grigi grattacieli della periferia di Hong Kong fanno meraviglie, vere acrobate, sveltissime. Quel cortiletto di cemento diventa il palcoscenico di grandi artiste che esalta le qualità di un atletismo meticoloso tipico dei cinesi, così come una certa idea della lentezza nazionale si ritrova nella curiosa gara delle lumache che alcuni bambini belgi contemplano, dopo averne macchiato con una goccia di colore i gusci trasformandole in una scuderia di corse al rallentatore.

In Congo si fanno delle piccole buche per terra e poi ci si travasano dei sassolini con sequenze aritmetiche, procedendo a eliminazione tra i vari giocatori.

Ogni volta c’è qualcosa di regale in questi giochi, per la loro povertà di mezzi, perché impongono al mondo le loro idee, le loro fantasie. Come il gruppo di ragazzi svizzeri che in un bosco invernale si diverte un mondo a fare della classica palla di neve una grande valanga, rotolandola su se stessa lungo il dirupo. 

Non volendone sapere del mondo già fatto, questi riscrittori dell’immaginario, altri rewriters, si fabbricano dal niente un proprio mondo ideale. Sono eroi, come quel piccolo ragazzino che in Congo sfida ogni legge della fisica, prima inerpicandosi con tenacia in una miniera abbandonata spingendo uno pneumatico più grande di lui, e poi, arrivato in cima, mettendosi dentro al copertone, lanciandosi e lasciandosi rotolare in una discesa folle e piena di adrenalina.

Senza scomporsi, una volta arrivato, ricomincia, perché la ripetizione è l’essenza del gioco, che non è impresa una tantum, è il potersi replicare tutte le volte che si vuole – si rifiuta ogni costrizione così come ogni fine, e il gioco deve durare fino a quando piace. 

La nostra principessa è una libellula cinese, che per le strade di Hong Kong salta tra le strisce pedonali, tra le parti chiare e scure del marciapiedi, tra uno scalino sì e uno no. È un gioco che abbiamo fatto tutti e che lei applica ai suoi lunghi spostamenti in una metropoli che è completamente reinventata in un percorso di facili ostacoli da superare, in un teatro di passetti di danza, di codici stradali da interpretare.

Lei vede quello che noi da tempo non sappiano più vedere, come tutti i protagonisti di The Nature of the Game. È verosimile che anche loro saranno presto incatenati alle circostanze del caso, bugiardamente chiamate realtà. E allora, uscendo dal padiglione belga, sentiamo riecheggiare le voci di Alberto Savinio: “Un tale emise l’ipotesi che foresta dell’infanzia e paradiso perduto fossero tutt’uno. La voce rispose: Sì”.

ENGLISH VERSION

“The Nature of the Game” at the
Venice Biennale
and the power of childhood rewriting

The Belgian pavilion offers a world tour of the street games for children. An idea that makes this pavilion the most spectacular of the Venice Biennale.

One enters the Belgian Pavilion at the Venice Biennale and enters the supreme necessity of the game, that is the lesson that teaches visitors, ourselves being sensitive creatures, to challenge what surrounds us daily, to activate the mechanisms of metamorphosis, to travel to the four corners of the world where children are flying  the flags of their realm. The surprise, the spectacular power of the dozen videos presented, is such that “The Nature of the Game” by Francis Alys is thus the most glorious pavilion and alone is worth the whole Biennale. 

The idea is very simple: to go from Mexico to Congo, from Belgium to China, and record street games of childhood, simple and often universal amusements, yet true acts of growth, of art, of construction of the self and of us, often starting from nothing. 

Three girls have only one skipping rope each, and among the grey skyscrapers of Hong Kong suburbs, they perform wonders, real acrobats, and so fast. That concrete courtyard becomes the stage for great artists who exalt the qualities of a meticulous athleticism typical of the Chinese, just as a certain idea of ​​national slowness is found in the curious snail race that some Belgian children watch, after having stained with a drop of color their shells turning them into a race and yet slow team. In Congo, small holes are made in the ground and then pebbles are poured into it with arithmetic sequences, eliminating the various players. 

Every time there is something royal in these games, because of their poverty of means, because they impose another idea, another fantasy on the world. Like the group of Swiss children who, in a winter forest, have a lot of fun making the classic snowball into a big avalanche, rolling it on itself along the cliff.

Not wanting to know about the world existing outside them, these “rewriters” of the imagination, other rewriters, build their own ideal world from nothing. They are true heroes, like that little boy who in Congo defies every law of physics. He first climbs with tenacity in an abandoned mine pushing a tire bigger than himself, and then, having reached the top, puts himself inside the tire and lets himself roll down in a crazy and adrenaline-filled descent. Once he arrives, he starts again, because repetition is the essence of the game, which is not a one-shot undertaking, it is being able to replicate as many times as you want – every constraint as well as every “end” is rejected, and the game must last as long as you like.

Our princess is a Chinese dragonfly, which on the streets of Hong Kong jumps between the pedestrian crossings, between the light and dark parts of the pavement, between one step and another. It is a game that we have all played and that she applies to her long journeys in a metropolis that is completely reinvented in a path of easy obstacles to overcome, in a theatre of dance steps, of road codes to interpret. Like all the protagonists of The Nature of the Game, she sees a city that we have been failing to see since long. 

It is likely that all those children too will soon be chained to the circumstances of the case, falsely called “reality”. And so, leaving the Belgian pavilion, we hear the voices of Alberto Savinio echo: “A man made the hypothesis that the forest of childhood and the Lost Paradise were the same thing. A voice replied: Yes. “

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