Niente mezzi termini, tanto studio, ricerca, esperienze personali, cronaca, rabbia e divulgazione: questo è A Micia Dura, il podcast che ci parla di transfemminismo di Giulia Salerno e Silvia Olivieri.

Ho parlato con loro in una lunga intervista sull’importanza di praticare un femminismo intersezionale, ma cosa significa? Giulia e Silvia ci parlano di femminismo bianco-centrico, di donne palestinesi, di paura ma anche di determinazione: oggi le donne sono stanche e arrabbiate, due sentimenti che gettano le basi del cambiamento. Un confronto prezioso, ricco di spunti di riflessione e consigli di lettura per approcciarsi al movimento transfemminista intersezionale contemporaneo.

Giulia e Silvia, eccoci. Che cosa ha fatto scattare in voi il bisogno di mettere su un podcast transfemminista?
Giulia Salerno: A Micia Dura nasce da un fortissimo senso di frustrazione. Una frustrazione direzionata verso una società che rende le donne invisibili e costantemente colpevoli, una società che ci manipola e ci induce a credere di non valere nulla. E questo vale anche per chi è stata costretta ad adeguarsi alle regole patriarcali per istinto di sopravvivenza, cosa che vale quasi per tutte le donne. Viviamo in una società fatta dagli uomini e per gli uomini, bianchi, etero e cisgender, ovviamente. Una società in cui si fa fatica a concedere spazio a voci diverse.

“Concedere, non è un verbo casuale. Ogni traguardo femminile viene vissuto come una concessione da parte degli uomini, così noi abbiamo deciso di crearcelo da sole, il nostro spazio. E ci siamo comprate un microfono”.

Con il tempo, tramite la nostra community, abbiamo capito che questa frustrazione era molto condivisa e si è poi trasformata in rabbia. C’è tanta voglia di cambiamento e bisogno di non sentirsi sole e pazze.

Silvia Olivieri: Io sono arrivata dopo nel progetto, quando Giulia ha visto in me la stessa rabbia, lo stesso fuoco e la stessa esigenza di non voler stare zitta. Partecipare al podcast è stato come aver fatto un regalo a me stessa perché è uno strumento che mi spinge a migliorarmi, a interrogarmi, a non rimanere statica nelle mie convinzioni. Mi piace che uno strumento considerato “piccolo” stia creando un effetto farfalla, stia spingendo al cambiamento.

Parafrasando una citazione di Michela Murgia sul femminismo, “Nel mondo femminista c’è la brutta abitudine di certificare il femminismo altrui”, io vi chiedo, prima di tutto: è vero? E cos’è per voi il femminismo? Si può dare una definizione universale?
Giulia Salerno: La patente della femminista perfetta andrebbe bruciata. Il femminismo è un lavoro continuo, una continua evoluzione, non ha senso voler “certificare” qualcosa che magari può cambiare negli anni. Il femminismo per me è libertà e parità per tutt*. Il femminismo per definirsi tale deve lottare in maniera trasversale, deve essere capace di cambiare lente, è empatico e deve ascoltare e supportare chi viene oppress*.

Silvia Olivieri: Assolutamente d’accordo. Non esiste la femminista “certificata”, è proprio un approccio sbagliato, opposto ai principi base del movimento. Michela Murgia ha ragione perché capita di cadere nel tranello del “Ah ma lei non è così femminista…” e sicuramente in parte è un tipico atteggiamento di noi umani, quello di fare paragoni. Il femminismo per me è uno spazio che ognun* attraversa quando lo ritiene necessario ma è uno spazio che accoglie, che si allarga, in cui si abbandona l’individualismo e ci fa ricordare che finché non siamo tutt* liber* non lo è nessun*.

Trasfemminismo, cosa è e come praticarlo

Che cosa si intende per “femminismo intersezionale” e in che modo si può praticare?Giulia Salerno: Cambiare lente, secondo me, è proprio il senso dell’intersezionalità. Kimberlé Crenshaw, un’attivista e giurista afroamericana, introdusse il concetto negli anni ‘80: sta ad indicare l’intersezione di più identità sociali e le possibili oppressioni e discriminazioni che ne derivano. Ad esempio, una donna nera non solo subirà sessismo in quanto donna, ma la violenza sessista le si manifesterà in un modo più aggressivo perché intrisa di razzismo; se la donna nera in questione fosse anche transgender, la situazione peggiorerebbe ulteriormente. Quindi l’intersezionalità è un concetto a strati. Esistono diversi livelli di oppressione. Si tratta di un concetto semplice ma ignorato per molto tempo. Le donne nere venivano già escluse dai tempi delle Suffragette, non solo dalle riunioni ma anche dai cortei. La soggettività nera non veniva presa in considerazione anche nel caso di Elizabeth Cady Stanton, una tra le più famose figure leader del movimento femminista americano e prima presidente della National American Woman Suffrage Association, che impediva alle donne nere di partecipare alle loro convention perché pensavano che dare il voto agli uomini neri prima che alle donne bianche avrebbe degradato ulteriormente la figura della donna bianca.

In effetti, una grave problematica all’interno del movimento è imbattersi, più o meno consapevolmente, in quel fenomeno definito “femminismo bianco-centrico”. Quand’è che avviene e che danni può portare alla lotta comune?
Silvia Olivieri: Noi ci interroghiamo molto su questo attraverso il podcast.

Definirsi femminista intersezionale significa capire il proprio privilegio e usarlo per aiutare chi non ce l’ha, mettersi da parte e capire che l’esperienza che viviamo noi in quanto persone bianche non è l’unica esperienza considerabile.

Purtroppo noi donne bianche dobbiamo ancora ripulirci dalla mentalità coloniale che ci portiamo dietro. Non dobbiamo dimenticare che non tutte le nostre percezioni sono corrette. Il problema del femminismo bianco è il cercare di creare spazio per le donne bianche in un sistema sociale fatto per i bianchi, senza prendere in considerazione altre realtà e altre verità. Lo abbiamo visto recentemente con la questione palestinese ma lo vediamo da sempre con chi parla dell’importanza del femminismo per “salvare” le donne musulmane “costrette” a indossare il velo perché non è neppure concepibile pensare che possano liberamente scegliere di voler indossare il velo e che i nostri usi e costumi non sono universali. Capita anche di vedere influencer che ti vogliono vendere abiti costosi, che parlano di emancipazione economica femminile e poi scopri che quei vestiti sono il risultato dello sfruttamento di altre donne. Il rischio di rimanere concentrate sul femminismo bianco è il rischio di mantenere una mente colonialista, con la convinzione di voler salvare tutti senza che nessuno ce l’abbia chiesto.

Giulia Salerno: Sono completamente d’accordo. Penso inoltre che il femminismo bianco-centrico non sia altro che un ulteriore strumento di controllo per il mantenimento della supremazia bianca. Il femminismo bianco gioca alle regole patriarcali, vuole una sedia al tavolo dei potenti e per arrivarci le donne stesse attuano comportamenti oppressivi. Vorrei citare Ruby Hamad che nel suo libro “Lacrime bianche / ferite scure” scrive: “La femminilità in generale è stata subordinata nelle società patriarcali ma il razzismo ha posizionato la femminilità bianca al di sopra di tutte le altre.” L’esempio ce l’abbiamo al governo. La prima donna premier che fa di tutto per sabotare l’autodeterminazione delle donne, specialmente quelle razzializzate.

A proposito di intersezionalità, nel vostro podcast A Micia Dura avete anche parlato del genocidio che sta subendo il popolo palestinese da parte di Israele, qual è stata la reazione del mondo femminista sulla questione?
Giulia Salerno: Secondo me ci sono state reazioni diverse, soprattutto inizialmente. Alcune più sconcertati di altre. Abbiamo visto moltissimo benaltrismo e poca conoscenza della storia, poca empatia e poco interesse verso la questione che, ricordiamo, va avanti da quasi un secolo. Ci sono stati episodi molto gravi anche nella bolla femminista, panel cancellati, spintoni ad alcune ragazze che il 25 novembre marciavano con le bandiere del popolo palestinese… È una spaccatura all’interno del movimento che a me delude molto. Se non sono libere tutte le donne non possiamo esserlo tutte noi. Il femminismo intersezionale non si occupa solo di donne, o di chi identifica come tale, ma abbraccia tutt*: gli uomini, le persone non binary, la comunità LGBTQIA+, tutte le identità. Vuole rendere eque le opportunità per tutt*.

Silvia Olivieri: C’è questa tendenza di vivere il femminismo a compartimenti stagni, con una divisione delle responsabilità. Per quanto riguarda la questione palestinese anch’io sono rimasta abbastanza delusa nel notare che, ad esempio, molte persone non abbiano mai condiviso nemmeno un post sulla Palestina perché “Eh sai è complicato, in quei paesi lì le donne hanno sempre avuto problemi…” e si siano invece espresse sul fatto che Barbie non avesse vinto gli oscar. Su Al Jazeera ho letto un articolo di Maryam Aldossari che si interrogava proprio sul silenzio delle femministe occidentali, le quali non considerano tanto grave quello che accade alle donne palestinesi quanto alle donne israeliane, dando due pesi diversi. Aldossari infatti affermava che il mondo occidentale ha un’idea delle donne, perlopiù islamiche, come sottomesse, da salvare dalla loro stessa cultura che le vede schiave. Ma parliamo degli oscar che è più importante, dai…

Praticare un femminismo intersezionale risulta difficile, così come parlare di Palestina: ma perché secondo voi?
Giulia Salerno: Perché è difficile decostruirsi, mettersi in discussione, ammettere di aver sbagliato o essere nel torto, anche se non è direttamente colpa nostra. Ci hanno cresciute così, in una società razzista, sessista, omofoba. Nel momento in cui le istituzioni non vogliono contribuire è nostra responsabilità decostruirci il più possibile. È facile andare sulla difensiva e mettere la testa sotto la sabbia per mantenere saldi i privilegi che mi da’ l’essere bianca. Parlare di ciò che potrebbe potenzialmente e radicalmente cambiar l’ordine delle cose è quello che spaventa di più la nostra società.

Silvia Olivieri: Quando si parla di intersezionalità sento spesso additare alcune questioni come “divisive”, un termine che odio. Non dovremmo essere “divisi” sul fatto che in Palestina stia accadendo un genocidio. Si fa fatica ad esporsi perché significherebbe anche subirne le conseguenze: avrai persone allineate con il tuo pensiero e altre che invece se ne allontaneranno. Esporsi significa poi mantenere una certa coerenza individuale. Quindi non solo si tratta di una decostruzione personale ma anche di una scelta degli spazi che si vogliono occupare. Io sono una donna bianca, eterosessuale, abile, quindi vivo il privilegio su tanti punti, ma mi batto per queste discriminazioni. Mi sono sentita dire: “Ma chi sei tu per parlarne? Perché ti interessa così tanto se non è una cosa che ti tocca?”. Penso che siamo abituate a vivere in una società estremamente individualista in cui risulta strano che mi possa interessare qualcosa che non tocchi direttamente me in prima persona. Attenzione, essere intersezionali significa anche avere la capacità di dire “Questo spazio non lo devo occupare io”. Io non andrò in un panel a parlare di cosa significhi essere persona razzializzata, ma occupo uno spazio come alleata, do’ il mio supporto.

Il femminismo fa paura?

Noto spesso che molte persone, donne e uomini, siano quasi, oserei dire, intimorite dal movimento femminista. Ma il femminismo può far paura davvero? O forse ciò che spaventa è proprio il guardare il mondo attraverso una lente femminista, e dunque senza filtri, senza bugie?
Giulia Salerno: Credo dovremmo fare discorsi leggermente separati ma paralleli. Gli uomini secondo me sono terrorizzati all’idea di mettere in discussione lo status quo, il loro potere decisionale, il loro controllo sulla società, sul corpo delle donne. Ci crescono terrorizzate, ci stalkerano, ci dicono cosa non possiamo indossare, prima ancora di saper parlare ci mettono in braccio un bambino di plastica a emulare la maternità, oppure ci regalano mini cucine per farci capire quale sia il nostro posto nella società. Parallelamente, anche le donne hanno paura del cambiamento, dell’ignoto, proprio perché abituate a un certo modo di fare, di pensare, di vivere. È dura mettere in discussione il proprio passato, rendersi conto di aver vissuto la vita in un certo modo, capire di essere state private di qualcosa. A tal proposito, ho avuto una conversazione molto triste con una delle mie nonne. Mi ha detto “Non sposarti, viviti la tua vita”. Mia nonna ha vissuto praticamente da prigioniera, la classica donna che oltre a lavorare come una matta aveva a carico tutto il lavoro domestico e familiare, senza mai avere tempo per sé stessa, non un hobby, non un progetto personale. Non ha mai potuto prendersi cura di sé e autodeterminarsi. Son discorsi diversi ma paralleli, entrambi hanno paura del cambiamento ma per motivi differenti.

Silvia Olivieri: Io invece mi auguro che il femminismo faccia paura, davvero. Bisogna far paura per attuare questo cambiamento. Condivido tutto ciò che ha detto Giulia, ho avuto la stessa testimonianza da mia nonna. Mi è anche capitato di parlare con altre donne e amiche che si chiedono, per fare un esempio, come sia possibile per me mangiare qualcosa in più e andare in giro con la pancia scoperta senza l’addominale. Certo, anche io devo ancora decostruirmi su tante cose, però si vive felici pur senza seguire le regole imposte da qualcuno che non sia noi. Per gli uomini c’è la paura di riconoscere di essere parte del problema, citando Valeria Fonte durante la presentazione del suo ultimo libro “Vittime Mai” : “Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida”. Significa che viviamo in una società culturalmente intrisa di sessismo, razzismo, omofobia. È la cultura in cui nasci che ti dice come devi essere. Uscirne diventa uno sforzo enorme, così come capire di poter essere parte della soluzione. Il fatto è che la nostra è paura di uscire, di essere violentate, di essere ammazzate, di non avere autonomia economica, mentre la paura degli uomini è quella di mettersi in discussione. Darwin ci insegna che chi non si evolve perisce, quindi…

Vi è mai capitato di allontanarvi dalla lotta femminista per paura, o di vivere momenti di rassegnazione a causa di contraddizioni all’interno del movimento?
Giulia Salerno: Allontanarci, mai. Capita spesso di provare della frustrazione quando notiamo che alcune femministe fanno discorsi senza quella famosa lente intersezionale. Allontanarci no, perché cerchiamo di creare uno spazio adatto a noi e di conseguenza avviciniamo persone che condividono le nostre idee.

Silvia Olivieri: No, non ci siamo mai allontanate dalla lotta. Penso che la bellezza di questo progetto sia avere accanto una persona amica, nei momenti di sconforto ci siamo l’una per l’altra. Ci sono state occasioni in cui io non mi sono voluta imporre perché può essere faticoso, non ho sempre la forza mentale di mettermi a discutere, che sia in ambiente lavorativo o a cena con amici. Il rischio di esporsi sulle tematiche femministe è quello di essere “additata” come “la femminista” quindi ogni occasione è buona per punzecchiarci, dirci “Ok, ma potevi fare di più, hai fatto 80 ma non 100”, eccetera. Alcune volte hai voglia di litigare, altre volte decidi di mangiare la tua pizza in santa pace. Capita di sentirmi in colpa, ma poi rifletto e capisco di essere umana e aver bisogno di spazio.

È faticoso essere femminista oggi, nel 2024? Come vi immaginate il futuro delle donne? Qualcosa sta cambiando davvero? Qualcuno ci sta ascoltando?
Giulia Salerno: Per me è faticosissimo perché leggo cose anche di trenta, quaranta anni fa e noto quanto ci sia di contemporaneo. Sicuramente tante cose sono cambiate, ci stiamo riprendendo i nostri spazi, tanti diritti sono stati ottenuti, però nella mente comune delle persone purtroppo è ancora troppo stereotipizzata la figura femminile e tutto quello che ruota attorno. È avvilente talvolta lavorare tanto per mandare un messaggio e poi non vedere il cambiamento. Certo, ci vuole tempo, però è difficile perché non abbiamo al momento un governo disposto ad ascoltare le donne e le persone marginalizzate. Quello che è evidente è la voglia di riscatto che c’è da parte delle donne. Oggi si percepisce anche la stanchezza. I podcast come il nostro sono importanti perché riescono a creare un effetto farfalla, per cui piano piano si riesce a interrogarsi tutt* insieme. È uno strumento che prima non c’era, quindi abbiamo l’occasione di creare connessioni e conversazioni importanti.

Silvia Olivieri: Sottoscrivo tutto. È importante questo strumento che ci aiuta a leggere la realtà, canalizzarla, abbiamo le parole, abbiamo scrittrici (anche) nuove che diffondono il femminismo. Il futuro delle donne è un futuro che mette paura perché è un futuro che ci vede unite e non divise, come ci hanno volute per anni. Con la stanchezza c’è la rabbia, è una combinazione forte. Ci vorranno forse altri 150 anni per una effettiva parità di genere, però sta avvenendo.

Che consigli di lettura dareste a chi si sta avvicinando al femminismo? Quali autrici vi hanno ispirate in questo approccio intersezionale?
Giulia Salerno: Abbiamo delle bibbie. “Il mostruoso femminile” di Jude Ellison S. Doyle; “Il mito della bellezza” di Naomi Wolf, che è un saggio denso che esplora il concetto culturale legato alla bellezza femminile e lo analizza nell’ottica in cui è sempre stato utilizzato: per manipolarci e tenerci in una posizione subordinata. È uno dei libri più belli che abbia mai letto, dico sempre che se l’avessi letto a 17 anni probabilmente mi sarei risparmiata moltissime ansie e insicurezze. Per capire più profondamente l’intersezionalità ne ho due: Lacrime bianche /ferite scure di Ruby Hamad e Fragilià Bianca di Robin Diangelo.

Silvia Olivieri: Come prima lettura consiglierei senza dubbio Stai Zitta di Michela Murgia, è un vero e proprio glossario di frasi che ci sentiamo dire e ci aiuta a capire anche come controbattere; e poi il primo saggio di Valeria Fonte “Ne uccide più la lingua”. Ho anche un consiglio musicale: My 21st Century Blues di Raye, un album che va ascoltato dalla prima all’ultima traccia. Parla di cosa significhi essere donna nell’industria musicale ma è un concetto applicabile a tutti i contesti, veramente una chicca.

Il podcast A Micia Dura di Giulia Salerno e Silvia Olivieri lo puoi ascoltare su tutte le piattaforme digitali e puoi seguire i loro aggiornamenti sul profilo Instagram @amiciadura .

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