In un Paese che attraversa una fase di grave involuzione politica e culturale come il nostro, fortunatamente ci sono le energie delle giovani e dei giovani di Ultima Generazione a ricordarci che non tutto è perduto e che le contraddizioni del presente non trovano risposte solo nella paura degli altri e nella protezione dei piccoli e grandi privilegi, come sembra pensarla invece la maggior parte dei nostri cittadini votanti (che però ricordiamocelo fortunatamente rispetto al totale delle italiane e degli italiani sono solo una minoranza!).

Il cambiamento climatico e le sue conseguenze, come quelle ultime drammatiche dell’alluvione in Romagna, mettono a nudo ogni giorno le ipocrisie del sistema economico e politico, incapace di portare avanti nei tempi e nei modi necessari, non già visioni e pratiche rivoluzionarie, ma nemmeno gli obiettivi al ribasso contrattati in anni negli Accordi di Parigi del 2015 e nelle ultime COP 26 e 27.

La parola d’ordine è
transizione energetica: ma a tutti i costi?

Di questi accordi la parola d’ordine principale è transizione energetica, per sostituire ai combustibili fossili le energie rinnovabili a bassa o nulla emissione di CO2, come il solare, l’eolico e il geotermico. L’obiettivo, senz’altro necessario ed onorevole, ovviamente si scontra con un sistema che non vuole cambiare; quindi, resiste sia all’avanzare delle rinnovabili, perché con esse cambiano le dinamiche del mercato e dei suoi attori principali, sia, se proprio alle rinnovabili si deve cedere, facendo in modo che restino inalterati i metodi di produzione e sfruttamento dell’ambiente e del lavoro, i meccanismi per l’accumulazione del capitale con i costi sociali e ambientali scaricati sulle comunità locali e possibilmente lasciando gattopardescamente anche gli stessi attori al comando.

Per chi vive in una bella città europea la parola transizione energetica si associa all’acquisto di un’auto elettrica o ibrida, di cui apparentemente dovremo tutti dotarci entro il 2035, ovvero nell’esecuzione di lavori di efficientamento energetico degli edifici, come quelli consentiti sin qui da operazioni di sostegno economico come quella note come 110%.

Questo punto di vista privilegiato è però troppo ristretto e non consente di rendersi conto che la transizione energetica, svolta con le caratteristiche di cui sopra, ossia senza una contestuale rivisitazione anche del sistema produttivo e degli obiettivi etici della nostra società nel suo insieme, si può tradurre in un’aggressione all’ambiente e alle persone i cui effetti si vedono solo alla sua periferia.

La febbre del litio

Ho avuto la fortuna lo scorso aprile di fare un lungo viaggio di lavoro in uno dei luoghi più belli del pianeta, al confine nord tra Argentina, Cile e Bolivia, in quella regione detta Puna andina australe, che rappresenta uno straordinario e delicatissimo ambiente desertico di altopiano compreso tra 4000 e 5000 metri di altezza, come solo in Tibet esiste, ma che qui è contornato da collane di centinaia e centinaia di vulcani perfetti nella forma, con il cappello di neve e ghiaccio sebbene si tratti di uno dei deserti più secchi del mondo, con immensi salar nelle zone basse dell’altipiano, ossia di immense estensioni di sale da evaporazione delle acque superficiali, dove si concentrano, oltre al classico cloruro di sodio (il sale da cucina comune) tantissimi altri elementi rari come il litio che sono fondamentali per la costruzione delle batterie necessarie alle macchine elettriche e a molte altre innovazioni per la transizione energetica.

In questo straordinario ambiente, in cui si possono percorrere ancora centinaia e centinaia di chilometri su strade non asfaltate senza incontrare anima via, se non rare mandrie di camelidi come le vigogne e gli avvoltoi (o almeno così pare, perché poi invece, non si sa come, ma qualche campesino con viso incaico cotto dal sole, con i suoi lama o i suoi asini che non si sa di cosa si nutrano prima o poi appare magicamente dal nulla!), ecco che è nata da un anno la febbre del litio e la febbre del solare.

Sfrecciano ora su queste stesse strade decine e decine di fuoristrada rossi che appartengono alle compagnie minerarie che estraggono il prezioso metallo dalle salamoie dei salar, o alle compagnie che gestiscono immensi campi di pannelli solari con produzioni fino a 400 MW su estensioni di decine di chilometri quadrati.

I pochissimi paesini esistenti qua e là (pueblitos in spagnolo) sono presi d’assalto da geologi e tecnici che debbono fare sosta nei lunghissimi viaggi dalla civiltà a questa periferia, senza tuttavia vedere grandi miglioramenti della qualità della vita dei residenti rispetto a quando ho iniziato a conoscerli più di vent’anni fa.

Qua e là, soprattutto dove le cattedrali nel deserto delle cittadelle del litio sono vicine a strade battute anche dal turismo d’avventura, si leggono cartelli che dicono “No alla megaminiera! Proteggiamo il nostro ambiente!” oppure “Salinas Grandes, una delle 7 meraviglie. No al litio, si all’acqua e alla vita!”.

Ora è chiaro che, come ovunque, esiste il fenomeno detto NIMBY, ossia not in my backyard cioè quel tipo di opposizione pregiudizievole che alcune popolazioni locali mettono in atto e che, in ultima analisi, è espressione di egoismo più che di difesa di diritti dell’ambiente e delle persone, rappresentando l’altra faccia della medaglia dell’egoismo delle grandi compagnie minerarie.

Ma è indubbio, e questo è ciò che desidero portare all’attenzione con questo articolo, che anche la transizione energetica ha i suoi costi, sociali e ambientali e che discuterne solo dal punto di vista del centro cittadino senza vederne le contraddizioni della sua periferia rischia di non farci concentrare sulla necessità di affiancare alla urgente necessità della transizione energetica anche una conseguente transizione etico-culturale che ci aiuti a fare scelte di valore.

E’ necessario ora più che mai che il centro di ogni azione siano le persone e l’ambiente anche delle periferie, per fare sì che i costi inevitabili non ricadano sempre e solo su chi è lontano dalla vista e dunque lontano dal cuore, trovando le giuste vie per fare in modo che anche la periferia viva i suoi benefici, in accordo non solo con le regole del capitale, ma con quelli che sono i valori locali.

Non a caso la Puna andina australe è davvero ancora un luogo magico dove le popolazioni, pur ufficialmente cattoliche, di fatto credono in Madre Natura nella forma della Pacha Mama, una deità femminile positiva e protettrice cui vengono fatte continue offerte e che nessun compenso strettamente o solamente economico può compensare.

Affrontare la transizione oggi ha bisogno del coraggio delle ragazze e dei ragazzi di Ultima Generazione e della loro visionaria e irriducibile richiesta di azioni immediate, e al contempo di alzare lo sguardo aprendoci alla consapevolezza che trasformazioni complesse richiedono soluzioni complesse e coraggiose.

Senza il valore della vita e dell’ambiente come prospettiva fondante dal centro alla periferia, si rischia di cambiare tutto per non cambiare niente. Ma questo non accadrà!!!!

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