Non si riesce a rimanere inermi di fronte al fatto che un essere umano ne uccida un altro. Quando accade, la prima domanda è sempre la stessa: perché uccidere. Per odio, per vendetta, per interesse, per gelosia, per depressione, per un parcheggio, per un litigio condominiale, per amore.

Di ragioni ce ne sono anche tante altre ma queste bastano e avanzano. Se odi qualcuno lo eviti, una vendetta può far molto male anche con metodi più sottili, l’interesse può anche essere indirizzato ad altri campi, la gelosia va curata così come la depressione, di parcheggi ce ne sono sicuramente altri, al condomino antipatico puoi fare un dispetto, al tuo amore… Già al tuo amore?

Uccidere non è la soluzione al tormento

Uccidere è un modo sbrigativo per eliminare l’oggetto del tuo tormento, ma non è la soluzione al tuo tormento. L’oggetto evoca la tua necessità di proprietà, di potere, di controllo, di convenienza che può essere conscia o inconsapevole. Uccidere non elimina le tue necessità, non elimina quel disperato bisogno di soddisfare quella tua lacuna, quella tua carenza, quello spazio emotivo fragile che ha bisogno di essere curato e educato. No. Eliminarlo cancella, ma solo momentaneamente, l’elemento che evidenzia il tuo problema che ti solleva per un attimo dalle tue ossessioni, ma non riempie quel vuoto che, al contrario, si approfonda in abissi sempre più bui. Filippo Turetta lo sapeva?

L’animale non odia quell’animale che uccide. Filippo Turetta amava quella donna che ha ucciso. L’animale uccide perché non potrebbe sopravvivere senza cibo, l’uomo perché non potrebbe sopravvivere senza eliminare chi gli evoca i suoi abissi. Senza cibo si muore, con gli abissi non si vive. È una malattia. Filippo lo sapeva?

In medicina si lavora da tempo per prevenire le malattie, specialmente il cancro. Ridurre i fattori di rischio, fare diagnosi precoce, eliminare le lesioni precancerose occupano ormai quotidianamente il nostro lavoro. Ma non credo che esista un test per individuare soggetti capaci di eventi estremi. Come li troviamo? Come possiamo correggere quel percorso patologico e, a volte, inconsapevole? Io non lo so ma è chiaro che c’è bisogno di un intervento a tappeto in una fase precoce della vita per educare a scoprire i propri valori e il proprio valore da confrontare con gli altri e con quello che si individua come un possibile partner, maschio o femmina che sia o si senta.

Confronto, non forzatura. Rapporto non costrizione

Ricordo che già circa 50 anni fa ponevo l’accento sul pronome possessivo mio. Dire la mia ragazza, il mio fidanzato sottintendeva comunque, anche se solo a livello inconscio, un’idea di possesso a mio giudizio perniciosa. Il mio fidanzato è mio, così come è mio il mio motorino. E, guai a toccarmi il motorino. Si diceva che se uno non era geloso non amava a sufficienza il proprio partner, ma non si riusciva a distinguere sempre nettamente tra amore e senso di possesso, tra fidanzata e motorino. Si blaterava sull’esistenza dell’anima gemella arrivata chissà come e quindi non alienabile e difendibile fino all’estremo, confondendola con il gemellaggio delle anime, vera condizione adulta e consapevole di un rapporto sano tra due soggetti sani. E mi riferisco sia ai maschi che alle femmine.

E mi chiedo se tutti i Filippo scoperti, siano stati rieducati, se è stata data loro la possibilità di capire la loro patologia, se sono stati guariti. Se così fosse, sarebbero dei formidabili testimonial della evocata educazione affettiva tra i loro coetanei.

Società patriarcale? Non credo, nella mia esperienza di vita e professione non mi sono mai imbattuto in segni di sessismo generalizzato tanto da definire malata tutta la società, malascio agli esperti la risposta. Se così fosse, sarebbe una sconfitta prima di partire. Non si cambia una società con corsi educazionali. Piuttosto maschilismo malato, questo sì, da individuare in soggetti apparentemente normali. Ma la violenza non è legata solo al genere. È una reattività patologica interna da individuare in tutti i possibili soggetti affetti. Tutti.

Non difendo nessun Filippo, ma non credo abbiano mai fatto queste facili e, se volete, banali riflessioni sul significato dei rapporti umani, non credo abbiamo mai incontrato qualcuno che li abbia fatti riflettere o abbiano letto Diventare uomini di Lorenzo Gasparrini. Immagino che, per arrivare a tali atti delittuosi abbiano vissuto tremendi conflitti interni in totale solitudine confrontandosi soltanto con la loro coscienza, o meglio, incoscienza malata. E per questo mi chiedo se Filippo esisteva o era solo la condannabile espressione di un patologico percorso interno.

Ammiro Orfeo che sfida gli inferi per far rivivere la sua amata e consenziente Euridce e non certo Apollo che cerca di impossessarsi di Dafne contro la sua volontà costringendola a rinunciare alla sua umanità e a chiedere agli Dei di essere trasformata in un albero sempreverde di alloro per non sottostare alle voglie di Apollo.

Giulia Cecchettin ha dovuto forzatamente interrompere il suo percorso di vita ma a noi piace immaginarla come una novella Dafne, trasformata in un albero sempreverde. Lì a ricordare a tutti noi di non addormentare le nostre coscienze fino al brusco risveglio di una nuova Giulia. Alla violenza, non facciamoci l’abitudine.

Suggerisco di non perdersi altre riflessioni su questa testata.

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