La prima volta che ho incontrato la regista Fabiana Iacozzilli è stato in un teatro, nel posto dedicato allo spazio regia, in cima ad una gradinata. Prima che lei mi notasse ho avuto modo di vederla tra i suoi collaboratori: attorniata da due tecnici, costumista, scenografo, attori e attrici.

Quello che mi colpì fu la sua naturale dolcezza nel gestire quelle persone, agitate dall’imminente debutto. Nel suo modo di fare mi apparve l’immagine di quell’amica, di cui si ha spesso bisogno, che nelle situazioni peggiori ti sa dare l’aiuto e il conforto necessario che serve per superare i momenti difficili. Le facce di chi le stava accanto erano visibilmente nervose per un qualche problema tecnico e la sua era seria, ma serena, era un faro di luce. Appena ci presentammo mi bastarono pochi minuti per far corrispondere l’immagine che mi ero fatto di lei con la persona che era. Eccola, Fabiana, una luce che guida (verso il Teatro)!

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Credo peggio di come sono ma solo per falsa modestia.

Essere regista oggi

Che significa, per te, essere una regista? 
La mia famiglia aveva una casa in campagna che poi, quando mio nonno si ammalò, venne venduta. Mio nonno era un uomo calvo muto e dai toni grigi. Suo figlio lo doveva chiamare padre. Con i miei cugini, quando eravamo in campagna, amavamo fargli degli scherzi per farlo arrabbiare. Una sera mio nonno andò a chiudere il garage e gli cadde in testa un
grande secchio pieno d’erba e di un miscuglio appiccicaticcio di fango che noi bambini chiamavamo pappamolla. Iniziò ad inseguirci con un forcone e mentre scappavamo ebbi il tempo di guardarlo e pensare che finalmente sentivo la sua voce.

Vent’anni dopo, mentre mio padre legava intorno alla testa calva di mio nonno un panno verde per chiudergli la bocca rimasta aperta dopo la morte, mi scappò da ridere per due ragioni: mio padre doveva chiudere la bocca a un uomo a cui aveva sempre dato del voi e, in quell’atto, rintracciavo una qualche forma d’amore e perché la bocca di quell’uomo muto era tragicamente morta aperta.

Credo che per me la regia abbia ha a che fare con delle questioni legate a quest’episodio o, per lo meno, con la mia reazione ad esso: cercare di riuscire ad avere sempre uno sguardo lucido sul reale, rintracciare una qualsivoglia forma d’amore in quello che sto raccontando e trovare il punto di sintesi tra cose e immagini apparentemente lontane tra loro, nello spazio e nel tempo. Poi certo, essere de* professionist* seri* e conoscere molto molto bene il proprio mestiere… che è un fatto non affatto scontato.

Cosa ti spaventa, di più, del mondo del Teatro?
Quando vedo che si fa teatro anche quando non si ha niente da dire. Mi terrorizza il poterlo o il doverlo fare. Cerco di non ritrovarmi mai in questo tipo di situazione perché so molto bene che il teatro non mente e che quando non hai niente da dire si vede.

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)?  
Nel nostro lavoro la mancanza di coraggio. La mia e quella de* altr. Nella vita Sinner. Quali difficoltà trovi, se ce ne hai, nella direzione, da regista, degli attori/trici?  Ho moltissime difficoltà quando penso che devo dirigere un attore/trice, perché non riesco bene a capire a cosa ci riferiamo quando parliamo di dirigere qualcun. Il punto per me è il rapporto umano che riesco a creare con quell’attore o con quell’attrice.

Sì, il rapporto umano per me è la priorità: non perché io sia una buona persona ma perché ne ho molto bisogno per il tipo di lavoro che porto avanti.
Ne Il grande vuoto, quando ho chiamato Giusi Merli per chiederle se le andava di incontrarci per il progetto, abbiamo stabilito di lavorare insieme una settimana alla Corte Ospitale per poi decidere se proseguire.

Certo, mi ritengo molto fortunata, non tutte le registe hanno la possibilità di lavorare in questo modo. Ma io funziono così, sono una regista che costruisce con la persona, a partire da chi e con chi ha davanti. Difficilissimo infatti per me pensare a una sostituzione… significherebbe cambiare una funzione scenica.
Quindi direi che per me la direzione degli attori è bella e piena di grazia quando riesco a trovare uno spazio di condivisione in cui ci accordiamo su un punto di vista sull’umano.

Quale è la parte più bella del tuo lavoro di regista?
La parte più bella è sicuramente quando intuisco la direzione che lo spettacolo deve prendere. Molto del mio lavoro è creare le condizioni affinchè qualcosa si possa manifestare sulla scena ed io ed il gruppo di lavoro dobbiamo essere pront* ad intercettare questo qualcosa. È un processo doloroso perché ha a che fare con la capacità di accettare di stare
nel vuoto ma il momento in cui qualcosa si manifesta arriva sempre. Bisogna solo sapere aspettare. Quindi direi che la parte più bella è lo stare in ascolto.

Che tipo di spettatrice sei, quando vai a Teatro?
Mi interessa molto la connessione tra la lingua scenica che si sceglie per veicolare la materia e la drammaturgia. Quando vado a teatro cerco sempre un momento sporco, non riuscito o non finito, perché contiene qualcosa di inespresso e dunque anche la possibilità di continuare ad interrogarsi sul lavoro e sulla sua rimessa in discussione.
Credo poi nel rapporto erotico che si instaura con il pubblico, mi viene da dire che sono una spettatrice che ama essere sedotta.

Il Teatro del passato

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato? 
Credo una certa violenza nei rapporti, le urla e l’enfasi del dire.

Cosa stiamo abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Quando molti anni fa vidi La Genesi di Romeo Castellucci intuii che essere visionari è l’unica strada che il teatro ha per far succedere le cose. Forse oggi il teatro, o almeno parte di esso, ha perso la sua spinta a portarci in luoghi immaginifici e a svelarci altri mondi possibili. Più visionari e rivelatori di senso. Forse in parte dipende dall’eccesso di biografismo che
abita le scene negli ultimi anni, ma non so dire meglio o più di così, ci penso spesso perché il tema della biografia sulla scena riguarda anche me.

Dal tuo punto di vista qual è la fatica maggiore a far riconoscere la propria professionalità in un mondo ancora troppo maschile? 
Durante la pandemia ho assistito a un webinair in cui due colleghe regista si confrontavano su regia e sistemi produttivi. Mi colpì molto un passaggio in cui una delle due registe affermava con estrema convinzione che il motivo per il quale nel panorama italiano ci sono poche registe scadenti è che a una donna non è concesso di essere mediocre e che ci sono
così poche registe perché quelle che raggiungono l’attenzione nazionale sono davvero e veramente brave. Al tempo non avevo mai riflettuto su questo punto ma penso che è vero, quella donna aveva ragione: ci sono più registi uomini perché a loro è concesso qualcosa che noi non ci possiamo permettere.

Sei diventata ciò che sognavi di diventare da bambina? 
Purtroppo sì. Nel mio spettacolo La classe racconto di come durante gli anni delle scuole elementari la mia maestra suor Lidia mi affidò la regia di una recita e di come, in quel modo, decideva nel bene o nel male il mio futuro. La classe è uno spettacolo in cui si riflette sulla figura dei maestri, su quelle persone che vedono in noi la possibilità di una strada ma è
anche uno spettacolo che mi ha chiesto se, in fondo in fondo, io sono la protagonista del sogno che un’altra donna ha fatto su di me.

Cosa pensi del “Pubblico”?   
A questa domanda rispondo con un’altra domanda: che tipo di pubblico?
Quando vado a vedere gli spettacoli di Antonio Rezza incontro il pubblico vero e sono molto molto contenta, ma una cosa del genere non succede spesso. Il più delle volte vado a teatro e incontro un pubblico di operatori e operatrici, di attori ed attrici e mi chiedo in cosa stiamo sbagliando.
Dovremmo investire molto di più sul pubblico in termini di politiche culturali, guardare con interesse alle nuove generazioni e puntare su* artist* e spazi culturali che intercettano queste fasce di pubblico.
Penso a progetti e spazi virtuosi come Allez enfant e Dominio pubblico, penso a Carrozzerie N.O.T e a* artist* molto giovani come Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri che qualche mese fa hanno riempito di ragazzi e ragazze entusiast* il Teatro Vascello per una settimana. Sono andata, era una platea molto bella da osservare.

Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)? 
Il preside del mio liceo, il professore Fabrizi, che dopo che mi ero ubriacata durante una gita mi sospese e, il giorno prima del mio esame di maturità, mi chiamò in presidenza per bere insieme a lui dello champagne. Quando lavoro penso spesso a quell’episodio perché molto del mio lavoro consiste nel cogliere e illuminare la fragilità. Un punto di riferimento è per me Luca Ronconi che monta in un solo pomeriggio un atto de Il professor Bernhardi, è Eimuntas Nekrosius per la scena dei vetri che si infrangono nell’Ivanov, è Paolo Conte negli inizi delle sue canzoni, e sicuramente sono i Monty Python.

Cos’è che ti fa scoraggiare?
Mi scoraggio quando sento che cerco di piacere e compiacere, quando faccio pedagogia e sento che non riesco ad essere onesta. Mi scoraggio quando penso alla situazione del Teatro di Roma, a quello che è successo negli ultimi mesi, a perché il teatro della mia città è così deprimente.

L’ultima volta che ti sei commosso per un’opera d’arte (cinema teatro musica musei)?
Ieri. Due alliev* di un corso hanno portato una proposta sulla scena di un testo che stiamo lavorando La riunificazione delle due Coree di Joel Pommerat. La scena racconta di un marito che va a trovare sua moglie in una struttura per malati che soffrono di malattie neurodegenerative. La donna non ricorda più nulla, fa mille domande al marito sul perché sono lì, sull’identità dell’uomo, sui loro figli. La scena ha un tono buffo e divertente ma ad un certo punto la donna chiede al marito: “In che modo ci amavamo quando ci siamo sposati?” E l’uomo esausto risponde seccamente: “Come una coppia normale che si è appena sposata!” per poi aggiungere subito dopo: “No! quando ci siamo incontrati era perfetto.

Eravamo come due metà che si erano perdute e che si ritrovavano. Era meraviglioso. Era come se la Corea del Nord e la Corea del Sud aprissero le loro frontiere e si riunificassero e la gente che non aveva potuto vedersi per degli anni si ritrovasse. Era una gioia, sentivamo che eravamo legati e che era una cosa che risaliva a un tempo molto lontano!” È stato commovente vedere come due ragazz* di vent’anni interpretavano la lotta contro il tempo.

In cosa credi?  Credo in August Strindberg quando ne Il sogno scrive “L’idea è sempre più della cosa”.

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