Ci sono tanti modi per morire, ma ci sono modi in cui non si deve morire nel 2022. Uno è la guerra.

Non importa dove siano nati, non importa a chi siano costretti ad obbedire o quali principi inseguano. Coloro che muoiono anche in quest’ultima assurda guerra europea sono soprattutto soldati e, quindi, giovani, giovanissimi, buttati nel mattatoio della follia.

Hanno la pelle chiara, le labbra secche dal freddo ancora di ragazzini, gli occhi celesti coperti dall’ombra degli elmetti. I loro ricordi nel tempo sono più vicini alla memoria dei giocattoli che alle responsabilità degli adulti. Li vediamo nelle poche immagini e nei terribili video strappati di nascosto dai telefonini sui quali fino a ieri mandavano messaggi agli amici.

Sono loro che muoiono sul territorio dell’Ucraina che non voleva e che non ha scelto la guerra. Chi ha mandato a morire tutti questi ragazzi è vecchio, superato, crudele e pagherà il prezzo della storia.

C’è chi dice che i soldati russi caduti siano più di 14mila, o 7mila, o 10mila, e a questi si sommano i caduti ucraini, 20mila? Oppure 1.300 come ha dichiarato Volodymyr Zelensky? E a queste cifre si sommano poi i civili uccisi e i bambini.

Se mettessimo per terra uno dietro l’altro i loro corpi si formerebbe una fila di decine di chilometri. Una traiettoria dell’orrore fatta di giovani sani e forti mandati al macello, per una precisa responsabilità di qualcuno che ha deciso consapevolmente di uccidere.

L’art. 11 della nostra Carta costituzionale dispone il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e a tenersi lontano dai conflitti anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

E il diritto internazionale rifiuta fermamente la guerra di aggressione stabilendo i principi riconducibili alla norma consuetudinaria del rispetto della sovranità territoriale di uno Stato, in quanto soggetto autonomo e distinto di diritto internazionale, riconosciuto nella sua piena integrità territoriale e dei confini dalle Nazioni Unite, dalle altre principali organizzazioni internazionali e dalla comunità degli Stati.

La Carta delle Nazioni Unite, sancisce che i fini delle Nazioni Unite sono:

1. mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo scopo: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace;

2. sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale.

L’Unione europea nel Trattato sull’Unione europea si riallaccia a questi principi:

“L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli… Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite…”.

Ed è proprio in questi drammatici giorni di conflitto che torna incredibilmente attuale il Menèsseno di Platone, un breve dialogo scritto dal filosofo nel 387 a.C. e dedicato alla guerra. Nel testo Platone descrive Socrate mentre conversa con il giovane Menèsseno a proposito dei discorsi funebri in onore dei caduti in guerra. Un testo carico di ironia e sarcasmo, che si prende gioco di coloro che elogiano la guerra.

“E pare, Menèsseno, che sotto molti punti di vista veramente sia bello morire in guerra. Infatti, anche se chi muore è un povero, gli tocca una bella e magnifica sepoltura, e se è un incapace, gli tocca comunque un elogio pronunciato da uomini sapienti che non parlano a braccia, ma che hanno preparato i discorsi da molto tempo; essi tessono le lodi tanto bene che, mentre dicono di ciascuno le qualità che ha e anche quelle che non ha ricamando con le parole più belle, incantano le nostre anime, elogiando in tutti i modi la città, i morti in guerra e i nostri progenitori tutti che ci hanno preceduti, e lodando noi che siamo ancora vivi; tanto che anch’io, Menèsseno, per le loro lodi mi sento veramente nobile e ogni volta mi ritrovo ad ascoltarli rapito, mentre ritengo all’istante di essere divenuto più grande, nobile, virtuoso.”

Ecco, appunto, noi crediamo che la guerra non renda né più grandi né più virtuosi.

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