Ci sono delle coincidenze che turbano: vi siete accorti che i due protagonisti del conflitto russo-ucraino si chiamano allo stesso modo?
Volodymyr e Vladimir sono espressione, nelle due lingue, dello stesso antico nome slavo Vladimiro, che è composto da una radice proveniente da vlasti o volod, che significa governare e da una seconda parte, mir (in caratteri cirillici мир), che significa pace ma anche mondoDunque i nomi dei due belligeranti significano la stessa cosa, governo della pace o governo del mondo.

E già questo è a mio parere molto disturbante.

L’altra cosa inquietante è il constatare quanto certi accadimenti sembrino ripetersi nella ciclicità della storia. La Grande Guerra e poi la Spagnola del secolo scorso paiono prendersi gioco di noi, come fantasmi che tornano a farci paura. Ma lo fanno a carte invertite. Già, perché stavolta, per noi cittadini del XXI secolo, è arrivata prima la pandemia, e poi la guerra.

Se la cronologia fosse rispettata pienamente, in questo angosciante gioco della paura, allora così come la Spagnola, durata circa due anni dal 1918 al 1920, anche la pandemia da Covid-19 potrebbe (speriamo) avere più o meno la stessa durata, dal 2020 al 2022. O almeno questo è l’augurio.

Ma se quindi esistesse davvero questo sortilegio maledetto, allora vorrebbe dire che questa nuova guerra che attanaglia l’Ucraina e che lambisce l’Europa potrebbe durare quattro anni come la Prima Guerra mondiale. O, quel che è peggio, trasformarsi essa stessa in guerra mondiale. La terza.

A temerlo sono numerosi esperti di geopolitica internazionale, e non da oggi. In tempi non sospetti già ne parlava l’economista e filosofo Philippe Engelhard, con il suo saggio La Troisième Guerre mondiale est commencée (La Terza Guerra mondiale è cominciata), che nel lontano 1997 parla del desiderio della Russia di recuperare il suo smalto. Le sue parole risuonano come premonizioni scritte oggi:

“La rarefazione di alcune risorse essenziali – l’acqua, il petrolio – può suscitare necessariamente tensioni forti, portatrici di scontri regionali. Il prezzo dei cereali non è mai stato così alto dalla Seconda Guerra mondiale. I problemi dell’ambiente – l’effetto serra, l’esaurimento dello strato di ozono – non si fermeranno mai, e anzi potrebbero, nel corso del prossimo secolo, dividere profondamente le nazioni. Manca nel mondo una potenza moderatrice, una sorta di arbitro. E l’Europa è disperatamente silenziosa”.

Un saggio di estrema attualità questo, che va letto tutto, ora più che mai, perché è solo attraverso una profonda autocritica come la sua, capace di analizzare gli errori compiuti dall’Europa e le debolezze che la minacciano, che si può pensare di uscire da questa impasse e trovare una sponda dove arrestare questo naufragio, come lui stesso lo chiama. A suo dire, in ballo c’è l’estinzione stessa della democrazia.

La minaccia della Terza guerra mondiale

In realtà non è la prima volta che ci si ritrova sul baratro di una terza guerra mondiale. Più volte l’abbiamo evitata per un pelo: con la guerra di Corea del 1951, durante la quale il presidente statunitense Truman fu convinto dagli alleati, Canada e Regno Unito, a risolvere la crisi per via diplomatica; poi di nuovo con la crisi di Suez del 1957, dove fu la Russia ad esprimere la sua minaccia maggiore.

In seguito il rischio tornò con la crisi dei missili di Cuba nel 1962, e ancora nel 1973 con la guerra israelo-araba del Kippur. In tempi più recenti l’attentato a Ronald Reagan del 1981 fece temere una cospirazione sovietica prima di capire che si era trattato solo del gesto di uno squilibrato.

Oggi una terza guerra mondiale potrebbe essere innescata anche solo da un semplice incidente che potrebbe accadere lungo i confini dell’Ucraina tra forze terze rispetto agli attori attualmente impegnati nel conflitto.

La guerra fluida del Ventunesimo secolo

A tal proposito si rivela illuminante il saggio di Alessandro Colombo (professore ordinario di Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Milano) L’Europa e la guerra agli inizi del Ventunesimo secolo pubblicato per Open Edition Journal, il portale open source progettato da una comunità scientifica internazionale per affrontare temi nell’ambito delle lettere, delle discipline umanistiche e delle scienze sociali.

Nel suo saggio il professor Colombo parte dall’idea che la guerra è sempre stata un elemento costitutivo dell’Europa, nel senso che sono state sempre le guerre a regolare l’ordine europeo.

Eppure, dopo i due conflitti mondiali, la guerra in Europa sembra essere diventata sostanzialmente impensabile, sia sul piano politico, strategico e giuridico, sia sul piano culturale,

“in seguito alla diffusione di una cultura di massa pacifista incline a vedere nella guerra un crimine, una malattia e, dal punto di vista dello sviluppo politico, una manifestazione di immaturità o primitivismo”.

E in effetti è proprio così: per noi europei la guerra è qualcosa di repellente. Ciononostante Colombo ci mette in guardia da questo convincimento, accendendo il dubbio che questa obsolescenza della guerra sia soltanto una fase reversibile nella oscillazione ciclica fra pace e guerra. E ci prospetta l’ipotesi che:

“Dietro l’apparente declino della guerra ci sarebbe, appunto, la fuoriuscita da questo modello storicamente eccezionale, e la transizione a «nuove guerre» che, oltre tutto, nuove in realtà non lo sono affatto: guerre civili e di frammentazione territoriale come quella jugoslava e quella ucraina, ma anche guerre di disegno imperiale —l’altro tipo storico più ricorrente della guerra, insieme a quella civile— come le spedizioni di «polizia internazionale», di «ingerenza umanitaria» o di «caccia» ai terroristi condotte dai principali Stati europei nei Balcani, sulla sponda sud del Mediterraneo e in Medio Oriente”.


E’ così che Alessandro Colombo ci accompagna verso la probabilità di un ritorno della guerra in Europa in dimensioni più circoscritte dal punto di vista geografico, ma ben più ampie dal punto di vista geopolitico:

“Le dimensioni spaziali non sono più quelle globali delle due guerre mondiali o quelle continentali delle guerre napoleoniche, ma si sono ristrette a una scala locale o, tutt’al più, sub-regionale come le guerre balcaniche degli anni novanta”.

Il suo ragionamento ci accompagna a scoprire la triplice natura della guerra nell’Europa contemporanea: le cosiddette nuove guerre combattute in aree considerate periferiche come l’ex Jugoslavia, la Georgia o l’Ucraina; gli interventi militari condotti dai più forti stati europei fuori area, e legittimati dalla narrazione della tradizione della Guerra Giusta (come quella in Irak); e infine gli attacchi terroristici compiuti da attori esterni sul suolo europeo, come gli attentati di Parigi del novembre 2015.

Il saggio ci conduce fino a raggiungere amare ed inquietanti conclusioni: che non esiste più un’idea condivisa di cosa sia la guerra e, quel che è peggio, che esiste l’impossibilità di tracciare una netta distinzione tra pace e guerra. E’ quella che lui definisce la crisi delle distinzioni.

“Guerre interne e guerre esterne, guerre civili e guerre internazionali sono sempre più saldamente fuse insieme, a maggior ragione ogniqualvolta è in gioco la conservazione o lo smembramento dell’unità nazionale di un Paese (come è stato nella ex Jugoslavia, nel Naborno-Karabach, nell’Ucraina orientale, in Georgia e in Moldavia)”.

I combattenti non si distinguono più dai non combattenti, donne e uomini passano continuamente da una condizione all’altra, con la conseguente difficoltà di accordare status e diritti. Tutto viene confuso e trascinato via nella stessa corrente di vendette, sospetti e rappresaglie. Spariscono anche i cerimoniali che una volta accompagnavano i conflitti, come le dichiarazioni di guerra o il casus belli. Non serve più una causa scatenante, e non serve più comunicare l’inizio della guerra. La guerra si fa e basta. E così la violenza leggittima non è più distinguibile dalla violenza illeggitima.

Il risultato è che viene messo a rischio lo stesso Diritto Internazionale Umanitario, ovvero quell’insieme di norme finalizzate a proteggere le parti deboli di un conflitto armato come i malati, i feriti, i bambini o i prigionieri e a ridurre i mali superflui e le sofferenze inutili. E’ esattamente quello che è successo il 9 marzo scorso con il bombardamento dell’ospedale di Mariupol, che ha provocato una strage di bambini e donne partorienti. Non un atto di guerra ma un crimine contro l’umanità secondo il diritto internazionale umanitario ormai disatteso.

E’ il tempo della fluidità, in cui la guerra contemporanea rischia di diventare una guerra infinita.

Come contrastare questa tendenza? Come tracciare una strada alternativa a quella della guerra fluida e infinita?

E’ Gino Strada, chirurgo e fondatore di Emergency, a suggerirci la via di fuga, attraverso la sua cultura di pace che è oggi la cultura veicolata da Emergency attraverso incontri nelle scuole, documentari, spettacoli teatrali, libri e qualsiasi altra iniziativa possa rinvigorire quella idea di pace che dopo i due conflitti mondiali del secolo scorso sembrava consolidata, ma che oggi sembra vacillare.

Ecco perché oggi va riascoltato il discorso pronunciato da Gino Strada nel 2015 nel corso della cerimonia di consegna del Right Livelihood Award 2015, il premio Nobel alternativo, quello che affianca il premio tradizionale e che viene riconosciuto agli sforzi compiuti da persone e gruppi, in particolare del Sud del mondo, per una società migliore e un’economia più giusta. Perché sono parole che devono risuonare sempre più forte, ogni giorno, nelle nostre menti e nei nostri cuori.

E va soprattutto dato spazio all’arte e alla cultura, perché sono le uniche armi con cui sarà possibile fermare la violenza, seguendo l’esempio di Tugan Sokhiev, il direttore del Bolshoi di Mosca e dell’orchestra di Tolosa che si dimette perché come musicista sente il suo ruolo di ambasciatore di pace.

“Presto mi chiederanno di scegliere tra Ciajkovskij, Stravinsky, Šostakóvič e Beethoven, Brahms, Debussy. Questo accade già in Polonia, un Paese europeo, dove la musica russa è vietata – e prosegue – noi musicisti, siamo qui per ricordare attraverso la musica di Šostakóvič gli orrori della guerra. Noi musicisti siamo gli ambasciatori della pace. Invece di utilizzarci, noi e la nostra musica, per unire le nazioni e i popoli, veniamo divisi e ostracizzati”.

Ecco, e allora facciamo in modo che sia la musica a salvarci, e a dare al nostro futuro quella sfumatura rosa che manca.

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