Netflix ha da poco rilasciato il trailer di Asakusa Kid, il film, basato sul libro omonimo scritto dal regista nipponico, che narra l’inizio della sua carriera come comico.
Classe 1947 Takeshi Kitano è stato una folgorazione per il cinema, pochissimi registi sono riusciti a congegnare un cinema iperbolico, dissacrante e nello stesso tempo ieratico.

Nato come comico, successivamente approda in TV diventando uno dei nomi più famosi dell’intrattenimento giapponese: per tutti ricordiamo il programma Takeshi’s Castle approdato anche in Italia con il nome di Mai dire Banzai e condotto dalla Gialappa’s Band.

Più che la figura di umorista e intrattenitore vogliano soffermarci sull’incredibile capacità di trasformare la sua vis comica in puro cinema. L’esordio come regista e attore è del 1989 con Violent Cop: inizialmente viene reclutato come attore ma nel corso delle riprese il regista abbandona il set e l’artista nipponico si propone di dirigerlo pur senza aver nessuna conoscenza nel settore. Quello che doveva essere un film di genere si trasforma in una pellicola spiazzante: il protagonista sembra aver visto fin troppe pellicole dell’ispettore Callaghan. Un esordio non ben compreso vista anche l’originalità con cui viene usato il commento musicale. Come ricorda Vincenzo Buccheri nella sua monografia sul regista:

«sarà anche l’ingenuità dovuta al suo analfabetismo cinematografico, fatto sta che Kitano si pone subito la domanda fondamentale, quella che gli artisti di professione spesso danno per scontata: come filmare? Dove mettere la macchina da presa? Cioè, in altri termini, da quale posizione è più “giusto” guardare e mostrare il mondo?».

Con Sonatine del 1993 (presentato nella sezione Un Certain Regard del 46º Festival di Cannes) e vincitore del Festival di Taormina qualcuno inizia ad accorgersi delle sue capacità registiche, ma è solo nel 1997 con Hana-bi – Fiori di fuoco che esplode in tutta la sua abbacinante bellezza vincendo il Leone d’oro alla 54ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

L’amore, la morte, la violenza temi ostici da affrontare, vengono inseriti in trame da film di genere e vengono trattati in maniera atipica: tragico e comico sono due facce della medesima medaglia inscindibili e che i protagonisti affrontano e sublimano, in Hana-Bi attraverso la figura di Horibe, amico e collega poliziotto di Nishi (Kitano), che si dedica alla pittura dopo esser rimasto in carrozzella a causa di uno scontro a fuoco.

Non c’è il minimo compiacimento nelle scene di violenza, anzi, il modo di inquadrare, con piani sequenza e campi lunghi, sottrae la spettacolarità rifuggendo in un cinema austero, composto che non può ricordare la lezione di Yasujirō Ozu. Come ricorda Vincenzo Buccheri:

«…Il gioco in Kitano introduce l’uomo all’esperienza della “vita nuda” spogliata dalle maschere e dagli obblighi sociali. Un condizione liberatoria, che assomiglia molto all’esperienza estetica, priva di interesse e finalità».

La trama pare essere un pretesto per sperimentare dei concetti profondi senza la superiorità o l’intellettualismo che hanno caratterizzato altri cineasti.

L’ultima pellicola del regista risale al 2017 ma noi ci soffermiamo su Hana-bi perché cristallizza tutto il suo cinema: da ricordare lo splendido commento musicale del compositore Joe Hisaishi, che ha firmato quasi tutti i suoi lungometraggi.

Hana-bi esprime una densità e un romanticismo inusuali che scardinano la nostra consapevolezza: l’amore, la morte, la sofferenza, il gioco, l’arte riescono a convivere paradossalmente perché ognuna include l’altra.

Ricordo il finale emozionante e inaspettato come il freddo serale e pungente che mi abbracciava all’uscita della sala: il cielo era sgombro, senza stelle.

E per chi non ha pazienza di aspettare il film, c’è il libro dal quale il film è tratto, per una full immersion in un Giappone contemporaneo comico e drammatico al tempo stesso.

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