C’è ancora domani. Andate a vedere il film di Paola Cortellesi così vi avvantaggiate sul dibattito inter generazionale che vuole distinguere i mostri dai finti bravi ragazzi, che si intravedono di sbieco, dietro una porta, una frase.

Il fidanzato della figlia di Delia è il Filippo di oggi a cui è saltato in aria il negozio, ma non per mano di una madre che lo fa per il bene di una figlia, di nascosto e con la complicità di un soldato, ma da mezzo milione di persone che dicono di distruggere tutto, senza arma da fuoco, un po’ più difficile.

Una scena di “Cè ancora domani” – di Paola Cortellesi
Photo by Claudio Iannone

“Quelli che oggi chiami mostri, ieri li chiamavi bravi ragazzi”.

Il 25 novembre in piazza tanti uomini forse davvero bravi ragazzi

Mi accodo alla frase aggiungendo (è il processo che bisognerebbe fare sempre in quanto evoluzione del pensiero oltre lo slogan) che in piazza, il 25 novembre, per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, c’erano tanti uomini e tantissimi di quelli che domani chiameremo davvero bravi ragazzi senza che si debba attribuire la definizione ad una sindrome o ad un mito.

“Allora saremmo femministe meno rompicoglioni” quando non farà strano se diciamo “ci siamo rotte le ovaie”.

Le tengono mani legate con le stimmate in un disegno che porta una ragazza in alto.

Gli striscioni mi hanno fatto molto riflettere, sono slogan, ma sono spuntini di un bel piatto di primizie. Ecco un cartello in stile satura lanx, non offerta ad un Dio, ma alla ressa del popolo: una donna crocifissa ad un utero; l’ho trovato visivamente geniale e ovviamente provocatorio.

Si addiceva a quella che sarà una vera Riforma protestante che porterà un nuovo L’utero. Crocifissa nella sua funzione di procreatrice da secoli, la donna risorgerà (?) non più dai corpi morti delle vittime, che riposano in pace con le sorelle in guerra. Non intende che la donna porta la salvezza, ma l’ho intesa come resurrezione avvenuta in un periodo in cui il nostro paese è incarnato in una presidente che rappresenta la sua emancipazione dalla cultura patriarcale proprio attraverso l’iconografia familiare, del potere del corpo, della procreazione: mamma, nonna, figlia, proprio lei che veicola il pensiero di un paese.

Curioso. Amo le contraddizioni della nostra epoca che non sono altro, però, che risorse dialogiche venute a smuovere in un terremoto l’opinione pubblica come placche terrestri che si scontrano, soprattutto se infiammano le gole dopo i cori di un corteo.

Denunce, sportelli di ascolto, numeri anti violenza

Però, per quanto io sia orgogliosa di una svolta epocale fatta anche di numeri, che contano, si duplicano le denunce, a parità di casi, si aprono porte e sportelli di ascolto: il 1522, il numero per le chiamate Anti- violenza e stalking, pubblicizzato da tempo da Differenza donna a vista anche sull’etichetta delle bottiglie di acqua e altre bibite dovevano già arrivare sulla tavola di tutte le famiglie italiane, prima di quella rotonda degli esperti senza capi tavola, ora finalmente è sulla bocca di tutti, non più a singhiozzi e acqua in bocca per le amiche. (Anche quella della Meloni, il cui governo, bisogna dire, ha fatto approvare una legge contro la violenza sulle donne).

Cosa sarebbe successo se un marito violento avesse visto quel numerino?

“La prossima volta compra la frizzante”.

Ho ovviamente ragionato sul processo che ci ha portato qui, dall’eye tracking della promozione femminista alle testimonianze meno oculari nelle stanze da letto dei tribunali.

“Cosa c’è di diverso nel caso di Giulia Cecchettin, che ha fatto finalmente “breccia nell’opinione pubblica?”

E qui un po’ di polemica: che l’aggravante di un femminicidio ci sia quando avviene in un contesto normale, quando le gambe del tavolo traballano, e gli adesivi sotto fanno assestare la rivolta della società civile toccata. Qual è la società civile contemporanea italiana? E’ una società che distingue i contesti sociali tra più o meno civilizzati e civilizzabili, di buone e cattive famiglie, di bravi e cattivi ragazzi?

Di uno che risponde

“anche le donne sono cattive”

e che per ironia della sorte si chiama Amadori? Non ha capito che le emozioni ce le abbiamo tutti da tempo, come la gelosia, la rabbia, la frustrazione, che però dalla grazia di Dio, alla teoria degli umori di Galeno siamo arrivati al cartone animato di Inside out, al vaglio del controllo di personaggini che ci dominano. Il discrimine è nelle derive dell’emozionalità e sopratutto nel rapporto che si ha con il modello.

Oggi si fa questo “rumore” perché ne è minacciata una fascia e uno status ben preciso?

Perlopiù quello medio-borghese di quegli opinionisti che chi l’ha visti? Dopo che per merito di approfondimenti e investigazioni su Rai3, sperano di fare il salto di qualità in mezz’ora facendo Piazza pulita con un fenomeno datato nel senso del tempo e dei dati statistici e che è in circolo non letterario nel resto della società civile che non mastica la materia, ma spesso buoni pasti o serviti e pretesi in famiglie vecchio stile dalle mogli sacre e onorate che tra un fischio di moka e un catcalling affinano le orecchie sempre aguzze ai bisogni del prossimo, carissimo Adinolfi, (chissà se il Signore ti ha dato 3 figlie femmine proprio in questa generazione ribelle per convincerti del Karma a cui sei sottoposto e convertirti al Buddismo).

Solo che, forse, queste famiglie non costituivano il target di ascoltatori perché non parlava più di donne un po’ troppo fuori dal raccordo anulare di unioni civili. Forse pensavano che quelle famiglie, urlando troppo durante le loro liti familiari non sentissero il TG?

Insomma, forse, questa messa in onda mediatica deriva dal fatto che parla alle famiglie dei conduttori, alla paura dei loro vicini che si sono alzati con gli ascolti per bussare alla stanza accanto delle loro figlie per interrogarle e assicurarsi siano lanciate in carriere universitarie e non nel dirupo vicino, che non hanno visto tra il tomo di Diritto Privato e il fidanzato.

Allora in trasmissione appaiono per la prima volta le saggiste che il dizionario definisce come scrittrici cui è congeniale il genere letterario del saggio ma a volte non é loro congeniale il proprio genere non letterario, né tantomeno il valore di quello dei pronomi, nella grammatica di oggi.

Allora prima di vedere il fascio di luce omogenea solidale in fiaccolata dobbiamo vedere dove è l’interruttore di un’opinione pubblica che si è illuminata dopo che ha tastato la parete ad occhi chiusi, che ha lasciato indietro, per strada, altri corpi solo quando si sono spente le luminarie in centro, spazzati nella periferia del nostro attivismo che lo prefigurava.

E allora, certo, se per opinione pubblica consideriamo quella che decide quando ha la forza mediatica, politica e poi istituzionale di indignarsi, di quella fascia che conta, ma non lo fa con i dati statistici, ridotti a numeri al lotto…Sono esattamente 8 le studentesse uccise a fronte di 197 vittime di femminicidio, secondo lo studio della commissione parlamentare nel campione 2017-2018 e che conferma la sconfitta dei nostri giorni.

Cosa c’è di diverso dalle altre donne vittime?

Vediamolo, le altre sono perlopiù della fascia 35-44 (anni), vivono in contesti, come si suol dire, ai margini della società, dove non c’è un’educazione culturale tantomeno del fenomeno, sono disoccupate, spesso come i loro assassini, non hanno e non avevano un contesto che le conosceva ed empatizzava. Un identikit lontano da Giulia Cecchettin, 22enne studentessa di ingegneria biomedica di Padova.

(Di 197 vittime di femminicidio)

29 disoccupate

18 pensionate

15 inattive (bambine, disabili)

15 badanti

16 impiegate

7 Operaie

5 Infermiere

7 prostitute

8 studentesse

(Gli autori di solito, provengono dallo stesso contesto).

Ovviamente, sono consapevole che questo sia, per volontà e sfortuna, un processo evolutivo, non per ridimensionarne, sulla base di numeri (è persino deplorevole doverlo precisare, mi auguro per tutti/e), la gravità del femminicidio di Giulia Cecchettin che apre, nella sua sciagura e Libera, come per Falcone e Borsellino nella mafia, preceduti da tanti altri operatori di giustizia uccisi, un movimento. Mi fa riflettere sul discrimine di come venga valutato il fenomeno femminicida, di come viene assorbito nella società civile, della fenomenologia dell’indignazione, ormai non più prescindibile dall’aspetto mediatico.

Siamo sensibilizzati da chi dà voce, parola, testi, giornali, post, slogan, visibilità, ridondanza, appunto rumore e commuove. Consapevoli che si è trattato del primo capitolo dello storytelling transmediale della cultura dell’hype, di rimbalzi su sospetti e ipotesi, di interviste rilasciate dei genitori che invocavano la coppia scomparsa, di una sorella che ha lanciato un appello, di giornalisti che giorno per giorno ci hanno fatto seguire la vicenda tragica in una tensione di indagini e tornanti in salita da Padova a Pordenone, di due studenti universitari.

Tutto questo non per criticare la ribellione sacrosanta (piuttosto esattamente il contrario), ma per raccogliere minuti di silenzio, tutti insieme in ore e giorni, ora sollecitati e legittimati da mail di cordoglio dei rettori degli Atenei. Perché quella ragazza è la sua piccola

Non è una prostituta, non ha a che fare con spacciatori, sa bene cosa sia il femminismo, non sarà una disoccupata, è formata, non vive ai margini della società, ma è stata presa dall’inesperienza di una relazione alle prime armi usate non come modo di dire, in un duello impari di due pari sulla carta, ancora non rientra dalla fascia piú colpita 35-44 anni, vive in un contesto normale e non disagiato, protetto, ma la aspetta appostato dietro un cespuglio. 

E’ la paura dell’invisibile, il verme solitario che non si vede e ti prosciuga

Quali sono i paletti che definiscono i margini della nostra empatia? Cosa ci smuove? O è il condizionamento esterno a farlo? Da dove è venuto il fenomeno? Da quando lo si vede o da quando se ne parla? E chi?

Allora ecco che la sottrazione all’impegno civile divulgatore ci fa cadere nella società della vergogna prima del complesso di colpa che dovevamo avere solo dopo una visione nel complesso di una società.

Detto questo la forma, che si moltiplica per algoritmi e che sui mass media regna crea, perlomeno, inevitabile scena di dibattito, fa cercare le parole giuste ai politici ai vertici sbagliati, non perché lo siano strutturalmente, ma perché non ci hanno mai riflettuto e allora sono spinti a trovare giustificazioni alle proprie parole e scelte da motivare per quelle persone che non se lo sanno spiegare e fanno scivoloni, utilissimi.

Sono consapevole che finalmente la solidità di molte ragazze è il risultato di un privilegio di un contesto e di una generazione che si sente, in realtà, poco minacciata. Il caso di Giulia Cecchettin crea una frattura, una contraddizione tra la preparazione che avevamo assunto, perchè di un contesto formato ed educato consapevole di vedere e rispondere e il risultato contrario di tragedie che ora si denunciano.

Ma allora chi può sfrutti questo privilegio per farsi analisi, capire che non bisogna educare le donne all’autonomia, che presumo abbiamo conquistata, ma all’autonomia di alcuni uomini alla ricerca di identità, come tutti/e, che non riescono ad elaborare la frustrazione di un vuoto e allora misurano il proprio essere e spessore in base alla libertà e l’auto affermazione dell’altra. Tutto questo nelle difficilissime contorsioni relazionali che confondono emozioni e ragioni, non è facile, dove si assottiglia il si e il no di un consenso.

In coppia dobbiamo lavorare sul senso di dove destinare quelle risorse crocerossine dispregiative attribuite alle donne e farne e aspettarsi che sia un pregio biunivoco, non che un crocerossino sia uno della croce rossa in ambulanza.

Mettiamoci nei panni sporchi dell’altro, in coppia, guardiamoci con i neuroni specchio utili a leggere un mondo palindromo, non da sinistra a destra o il contrario nel caso in cui fosse ebraico o arabo, ma dirimpetto, dove il verso giusto della parola viene dal rispecchiarsi con l’altro che ti vede di fronte, da pari, in simmetria assiale, all’altezza degli occhi.

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