Da Henry van de Velde a Virgil Abloh. Quella liason dangereuse, e non nuova, tra moda e architettura
Il legame tra moda e architettura è sempre stato molto pronunciato. Basti pensare alla parola che hanno in comune, progettare.
Il legame tra moda e architettura è sempre stato molto pronunciato. Basti pensare alla parola che hanno in comune, progettare.
In una recente intervista su Dezeen, il Chief Executive Officer di Off White Virgil Abloh ha dichiarato che il suo ingresso nel mondo della moda è nato dopo aver frequentato un master in architettura all’Institute of Technology dell’Illininois.
Abloh, che ha iniziato la sua carriera a fianco del rapper Kanye West per finire direttore artistico di Louis Vuitton, primo afroamericano nella maison del lusso, e che nel frattempo ha disegnato collezioni a edizione limitata per Ikea, ma pure per Vitra, e che pochi giorni fa ha presentato una nuova bottiglia di plastica stropicciata per Evian, ci ha tenuto anche a sottolineare che, nel caso non l’avessimo capito, lui non crede alla divisione tra le discipline. Abloh, dal canto suo saprà che, tra moda e design, tra moda e architettura, il legame, e la trasversalità, è sempre stata piuttosto pronunciata. Del resto, per la sua ultima boutique Off White a Miami, ha chiamato lo studio, o meglio gli studi, di Rem Koolhaas, non un novellino in fatto di spazi architettonici pensate per il fashion system, e già abbondantemente adottato da Prada.
Riprendendo un tono più serioso, va ricordata la famosa frase di Coco Chanel che ripeteva che la moda era in fondo come l’architettura: tutta una questione di proporzioni. La lista dei fashion designer che hanno frequentato scuole di architettura, se non si sono persino laureati in architettura, è lunga: a cominciare dal nostro Gianfranco Ferré, poi Balenciaga, Balmain, Tom Ford… E soprattutto, nella stessa storia dell’architettura ci sono stati architetti che, come il celeberrimo Henry van de Velde, avevano l’ambizione di disegnare, ovvero progettare, tutti i dettagli dello spazio umano, compresi gli abiti coordinati all’arredo che gli ospiti avrebbero dovuto indossare abitando quel particolare spazio. Su questa postura progettuale che confina con la mania del controllo ha già sentenziato Adolf Loos ([…] verrà un giorno in cui l’arredamento di una cella carceraria ad opera […] del professor Van de Velde sarà considerato un inasprimento della pena), ma è indubbio che è nello stesso vocabolario (si pensi a parole condivise come tessuto, materialità, struttura, costruzione, scultura, silhouette, modello); nella stessa affannosa ricerca di materiali; nel rispetto delle proporzioni del e con il corpo umano (dai tempi di Vitruvio); nel comune bisogno di rispondere al diktat della funzionalità; nell’interesse verso le nuove tecnologie, che si crea la naturale simbiosi tra moda e architettura.
La parola progettare deriva d’altra parte dal francese projeter, che è dal latino tardo proiectare «gettare avanti», il che accumuna le due discipline anche nella loro tendenza a precedere i tempi, nel fare avanguardia, nella loro particolare sensibilità a capire il sentimento contemporaneo. Diceva Zaha Hadid che sia l’architettura che la moda si basano sulla struttura e sulla forma, ma trasformano necessità di base (come l’abbigliamento e il riparo) in arte. Ecco, quel futuro prossimo che si intravede in taluni progetti di moda o di architettura è in un certo senso arte. Sono progetti che hanno il pregio di mettere in discussione, e talvolta di migliorare, le nostre convinzioni su spazio, tempo, forma, comportamenti, interazioni, gusto, culture, movimento, comunicazione. Il privilegio (e oggi diremo anche la responsabilità) di chi progetta, è infatti quello di avere la possibilità di ri-disegnare il mondo. Anche fuori da uno showcase o da un negozio griffato. Ma questo il signor Abloh lo sa bene.
Nella foto di apertura, immagine tratta da Real Fantasies lookbooks e video, nati dalla collaborazione di Prada con AMO/Rem Koolhaas dal 2007.