L’ecocidio (letteralmente «uccisione dell’ambiente naturale») è definito da Polly Higgins (avvocatessa ambientalista scozzese, 1968-2019) come «la distruzione, il danneggiamento e la perdita di ecosistemi, piuttosto estesa, di un determinato territorio, provocata da agenti umani o da altre cause, al punto che il godimento pacifico del territorio da parte degli abitanti viene fortemente compromesso». Per la prima volta se ne parla nel 1970, quando Arthur Galston (1920-2008), botanico americano, propone un accordo internazionale che consideri l’ecocidio un reato. Da quel momento in poi numerosi sono i richiami a questo concetto, i tentativi di includerlo tra i crimini internazionali e le iniziative finalizzate a porre le basi per un suo riconoscimento legale.

Una proposta di legge sull’ecocidio viene presentata nel 2010 alle Nazioni Unite proprio da Polly Higgins. L’intento è di garantire il benessere degli esseri umani e del pianeta creando un quadro di riferimento etico e legale per prevenire la distruzione o il danneggiamento degli ecosistemi, garantendo alle future generazioni la possibilità di continuare ad abitare il nostro pianeta in modo più armonico rispetto al presente, con il chiaro obbligo per tutti gli Stati di assumersi la responsabilità delle attività industriali che possono recare danni all’ambiente e alle popolazioni coinvolte. Tuttavia, nonostante l’impegno da più fronti, l’obiettivo non è stato raggiunto e a tutt’oggi questo reato non esiste. O meglio: non esiste in riferimento a un tempo di pace.

In effetti, nello Statuto di Roma, firmato nel 1998 da numerose nazioni e che stabilisce i crimini di competenza della Corte Penale Internazionale, accanto ai crimini di genocidio, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra e di aggressione viene introdotto un richiamo a «danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale» (art. 8, 2b, iv), anche se relativo soltanto a quei crimini commessi in tempo di guerra. Dunque, allo stato attuale i reati contro gli ecosistemi non sono concepiti come gravi reati al di fuori di situazioni di conflitto bellico. È pertanto impossibile far rientrare tra gli ecocidi reati come quelli commessi nella terra dei fuochi in Campania, o molte delle tragedie che in Italia sono classificate come disastri colposi, anche se questi eventi hanno spesso compromesso gli ecosistemi e la vita dei cittadini.

Probabilmente sarà difficile introdurre nel diritto nazionale il reato di ecocidio, almeno fino a che non ci sarà un cambiamento culturale che permetta a questo concetto di essere pienamente sviscerato in tutte le sue implicazioni giuridiche e filosofiche. Non si può infatti non osservare che la proposizione sul piano giuridico del concetto di ecocidio sembra in ogni caso sottolineare quella frattura ontologica che separa gli essere umani dalla natura, che è causa della grave condizione in cui versa la specie umana moderna, sospesa tra una condizione di lontananza nella sua percezione di appartenenza al mondo fisico e l’aspirazione ad una vita più ecologicamente orientata. In quest’ottica, l’ecocidio potrebbe essere inteso in primis come un crimine contro la Terra e, di conseguenza, contro gli esseri umani. Non semplicemente un crimine contro ecosistemi deumanizzati. Il suo impatto inciderebbe su più livelli, da quello ambientale a quello sociale, economico, estetico e culturale, fino ad intendersi come un danno in termini psicologici di intere comunità umane, arrivandone a minacciare la pace.

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