Dall’Elfo di Milano al Vascello di Roma per una lunga turné, molti sono i piani narrativi di questo dramma la cui parola chiave resta, banalmente epico, andato in scena per la prima volta nel 1955 al Duke of York’s Theatre di Londra. Nell’opera Moby Dick alla prova coesistono il Moby Dick di Melville, immenso e totemico come il capodoglio che racconta, lo sguardo di Orson Welles, che, regista fino in fondo, non esita a contestualizzare la sua narrazione metateatrale dentro una compagnia che sta lavorando sul re Lear, la cifra inconfondibile di De Capitani e Bruni (qui artefice dei costumi).

Ci sono tanti narratori scopertamente esposti: il giovane Ismaele, che diventerà “il solo superstite che visse per raccontare… “la donna con i riccioli rossi, le canzoni a metà tra il Musical di livello e la dichiarazione brechtiana di diversi intenti. Ci sono le maschere grigie che gli attori indossano nella spartizione tra realtà e sogno, in un teatro che è inevitabilmente anche cinema, romanzo, fiaba, saggio antropologico, dipinto sturm und drang, teorema esistenziale che avviluppa lo spettatore insieme al respiro del mare stesso, il respiro della burrasca che si unisce al trattenere il fiato dello spettatore, il rantolo del cetaceo, davanti a un telo gigantesca macchia di Rorschach- che sbatte sapientemente disegnando bufera, passioni oscure, il profilo del mostro marino stesso, oggetto dell’ossessione del capitano Achab, emblema della così definita “nuda violenza umana”.

Moby Dick. La tempesta del re Lear

C’è Ulisse come anche Spielberg nella tragedia che si consuma nella domanda imperante sul senso della vendetta. Lo scontro leopardiano con la Natura, il Joker, Jackyll e Hyde sul Titanic, la coscienza malvagia dell’ossessione, lo sguardo ingenuo della giovinezza, di una balena bianca che è come “la tempesta nel Lear:.. è reale, anzi è più che reale, è una chimera nella mente”.

Si oscilla sensorialmente in questo Cirque du Soleil di ombre cinesi, in un orizzonte di metafisica primitiva, che, per fare il verso all’ultimo prezioso saggio di Aldo Nove, ci costringe a “Inabissarsi” in quell’angolo calmo del cuore dentro la tempesta che l’animale incarna, ignaro di essere stato eletto a nemico per eccellenza, canale di ogni scolo di rabbia e desiderio di rivalsa, facendo eco a quel residuo di purezza nascosta sul fondale del nostro cuore ferito stesso. Il bianco e il nero che si intrecciano cambiando segno, la brama di canoscenza che si fa inevitabilmente morte, il simbolo che diventa carne, nella universale disputa delle partite perse ma che non si possono non giocare se si dà ascolto all’anima, alle sue pieghe corrusche.

Ferocia e compassione

Tra i pochi elementi suggestivi della scena di Roberta Monopoli, tra un profluvio di parole scalpello lucido, musica dal vivo creata ed eseguita da Mario Arcari,  le luci temporalesche di Michele Ceglia, si dipana una immortale dinamica tra ferocia e compassione, adoperarsi al mestiere e tensione alla vendetta da parte di quello che “tutto distrugge e niente conquista veramente” portando alla rovina con la sua forza oltraggiosa uomini tormentati e semplici, che nella ricerca ingenua di un lavoro, precipitano in una spirale di dissoluzione, anch’essa epica, che trasfigura amaramente il senso ultimo del destino di chi, costretto all’obbedienza, si immola convincendosi delle ragioni stesse del comando.

Adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di Herman Melville
traduzione Cristina Viti
uno spettacolo di Elio De Capitani
costumi Ferdinando Bruni

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