L’ossessione è l’immagine. Il centro è il corpo. I social un’immensa galleria dove si esibiscono volti e fisici, prima di contenuti e notizie, anche e soprattutto laddove si invoca la libertà da modelli e cliché, magari in nome della body inclusivity. La bellezza esiste, e conta. Altrimenti dovreste spiegarmi come mai un Thomas Ceccon diventi virale in meno di 24h (le imprese sportive, certo).

Il corpo dell’atleta è il suo bene più prezioso, quasi sacro. Non a caso nell’antica Grecia, dove si celebrarono i primi giochi olimpici in onore di Zeus, gli atleti gareggiavano nudi e si cospargevano il corpo di olio prima della presentazione, per esaltarlo.

Il corpo. Le Paralimpiadi di Parigi

Non abbiamo fatto in tempo ad abituarci ai protagonisti dei Giochi Olimpici 2024 che le Paralimpiadi hanno fatto irruzione nel nostro quotidiano, con una forza che va molto al di là delle medaglie e dei record.

I paratleti non si nascondono più e reclamano, giustamente, un palcoscenico, dentro e fuori lo stadio. Chi non ricorda Bebe Vio in abito Dior? La triatleta Veronica Yoko Peblani è da tempo modella, e le sue immagini artistiche ci riportano alla complessità della bellezza, anche sotto i segni della meningite.

Protesi elastiche, resistenti, fibre di carbonio, kevlar, leghe di titanio personalizzate anche con adesivi e colori, potenti e pericolose. Lo abbiamo visto con i 100 m della triade italiana Martina Caironi, Ambra Sabatini e Monica Contrafatto.

Oggi vediamo la snowborder Brenna Huckaby o la nuotatrice Jessica Long tutte prestate al modeling per linee adaptive e non solo; un tempo, non troppo lontano, c’era Aimee Mullins. Erano i giochi paralimpici di Atlanta 1996 quando la Mullins stabilì il record personale nei 100 m piani e nel salto in lungo. Era il 1999 quando quel genio di Alexander McQueen la fece sfilare a Londra con delle protesi in legno intagliate a mano, trasformandola di fatto in una divinità, un essere mitologico (metà donna e metà scultura), suscitando un certo scalpore anche perché le persone avevano una minore abitudine a vedere delle protesi e, soprattutto, a vederle su una modella che, non a caso, la rivista People nominò come una delle 50 persone più belle del mondo.

Aimee Mullins a TED EX (fonte: Flickr)

Erano gli anni ’90 ed una delle principali novità culturali fu quella di essere di nuovo interessati all’idea che l’uomo ha di sé, di riportare al centro il culto del corpo come luogo di seduzione, di bellezza, ma anche di malattia e di angoscia. Dalla convergenza tra biotecnologie e chirurgia estetica nasceva la possibilità di un corpo sempre più reversibile.

Post Umanesimo, nuove definizioni dell’io

Più di trent’anni fa Jeffrey Deitch (artista, curatore, critico e gallerista americano), si rese conto che qualcosa stava cambiando e riunì un gruppo di artisti che lavorava sulla concezione del corpo e le nuove definizioni dell’io, con una mostra intitolata Post Human. Al vecchio modello della tradizione umanistica occidentale (maschio bianco, caucasico, dominante e al di sopra di tutte le specie, viventi e non viventi) si stava sostituendo un uomo nuovo, fluido, di identità mutevole, compenetrato con il mondo tecnologico, vegetale e animale.

Matthew Barney, nato nel 1967 San Francisco e laureatosi nel 1989 all’università di Yale, utilizza il suo passato da modello e da giocatore di football per una ricerca che sonda la fisicità, l’erotismo, i limiti che può sopportare il corpo umano. I video e i film che realizza lo vedono trasformarsi in un essere dalle caratteristiche zoomorfe, abitante di un universo sinistro e inquietante in cui scultura, cinema, videoarte si fondono con la biologia e la fantascienza.

In uno dei film che realizzò fra 1994 è il 2002, il ciclo Cremaster, delinea un’estetica che ha a che fare con l’atletica, con il corpo mutante, con il sublime e il mostruoso. In uno di essi la Mullins interpreta il ruolo di donna ghepardo, a dimostrazione di come quell’essere ibrido affascinava l’artista che più ha studiato il corpo sotto una luce completamente diversa.

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