Il nerello mascalese dentro i calici, le frasi in rima dello zio Totò, gli applausi del resto della famiglia. I baci sulle guance consumate di noi sposi. L’immancabile: Auguri e figli maschi.

Qualche anno dopo, quando ho saputo che sarebbe nata una bambina, ho pianto per venticinque minuti. Di gioia. Perché io proprio una femmina desideravo, alla faccia dello zio Totò.

Alla notizia il parentato parve abbastanza soddisfatto o forse cercava di apparire tale: le figlie femmine sono più sperte (termine siculo-orientale e aferesi di esperto). Le femmine crescono prima e sono il bastone della vecchiaia per i genitori. E vogliamo parlare del vestiario? Sono più sfiziose; con tutto quel rosa, i fiocchi, le paillettes, il tulle.

Il tulle mi fa orrore e il desiderio di generare una femmina non stava nella convinzione della supremazia del cervello femminile; né tanto meno nell’investimento di una futura badante.

Desideravo una femmina come si desiderano i giorni felici. Non c’era un perché, era un sogno leggero che si infiammò con gli ormoni della gravidanza. O forse, se proprio devo trovarci una ragione, era qualcosa che rientrava nell’ordine delle cose. Quando cresci in mezzo a tante donne, l’idea di mettere al mondo e crescere un maschio appare come qualcosa di sconosciuto, di estraneo. Forse, in cuor mio, desideravo la via che credevo più semplice.

E invece di semplice non c’era nulla. Anche perché io sono nata femmina, trentacinque anni prima, in un paese di provincia. Non che oggi sia la stessa cosa, ma l’affermazione entusiastica del siamo nel duemila non mi ha mai convinto del tutto.

In una freddissima notte di inizio gennaio, nasceva una bambina con delle guance paffute e un pianto che fece tremare i vetri alle finestre. Abbiamo ricevuto in regalo ventiquattro tutine di colore rosa; dieci copertine intonate ai confetti; una sfilza di orecchini che la bambina non ha ancora indossato perché la mamma non ha voluto farle i buchi ai lobi delle orecchie. Sarà la bambina a scegliere, quando sarà il momento.

A quasi nessuno piacque il corredino con gli orsacchiotti color caffellatte che, alla mamma e al papà, ricordavano i pomeriggi d’autunno. Come se non bastasse, il destino ha voluto che ci piacesse un nome adespota, uno di quelli che non appartengono a nessuna santa vergine martire.

E ancora ci sentiamo gli sguardi appiccicati addosso, dopo aver comunicato che non ci sarebbe stato alcun battesimo. Avevamo già osato con un matrimonio civile. Non è stato facile spiegare che, come primo regalo, volevamo dare a nostra figlia la libertà di scegliere, quella che a noi non è stata data.

E poi volete mettere non dover invitare a festa lo zio Totò?

Sono passati cinque anni. Ho tutti i capelli bianchi e un larghissimo sorriso.  Ballo con la mia bimba la nostra canzone per l’estate: Balla, figlia del sole. Canta, non ti fermare.

Non è stato e non sarà facile. E non per il sesso della prole. Non è facile liberarsi dalle zavorre. Crescere una figlia libera quando tu non lo sei stata. Ogni giorno rispondo alle domande della mia bimba e, a ogni risposta, libero anche la me bambina. La libero dai silenzi, dalle frasi poco chiare, dai tabù, dai dubbi senza risposta che sedimentano e fermentano dentro. A volte non trovo le parole e allora mi aiutano i libri, le canzoni, le storie e le leggende.

Qui a Palermo è un luglio caldissimo, di lunghe giornate luminose. I quartieri fremono per il festino di Santa Rosalia. Il Cassaro in festa, le lumache bollite, l’anguria, le luminarie, la banda e il riflesso delle luci sul golfo. I fuochi sono a tarda sera, la piccola dorme già dentro al suo letto, ma prima di dormire mi chiede cos’erano tutte quelle luci in centro e perché al Foro Italico hanno montato le bancarelle.

E allora leggiamo un libro che parla di una bambina di nome Rosalia. Recita poesie, è una piccola artista di Palermo, che sorride sempre e non piange mai. Un brutto giorno arriva la peste, sono tempi bui, non si esce più di casa. La piccola Rosalia, dopo aver saputo della morte del suo amico Vicè, sale su Monte Pellegrino e, per la prima volta nella sua vita, inizia a piangere. Un pianto lunghissimo, che genera fiumi e torrenti di acqua limpida, e ripulisce Palermo dalle malattie e dalla tristezza. Era un afoso giorno di luglio e da allora, ogni anno, Palermo festeggia Rosalia. La sua picciridda. Nata femmina, fatta di rose e di gigli.

Abbiamo letto Rosalia Picciridda di Laura Lombardo – illustrazioni di Nina Melan edito da Ideestortepaper.

Abbiamo ascoltato e ballato: La ragazza del futuro di Cesare Cremonini

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