Per molti anni, la figura paterna, nel cinema come in letteratura, è stata imprigionata in un cliché negativo. Padri assenti, padri autoritari e violenti, padri anaffettivi e egoisti.

Il successo e la diffusione che ha avuto la psicoanalisi, le teorie della scuola di Francoforte nonché l’affermarsi delle nuove suggestioni che propone il femminismo con la critica al patriarcato, hanno giustificato questa forma di demonizzazione. Tanto che, a un certo punto i padri sono sembrati sparire.

Con molto poco coraggio, si sono sottratti a un confronto impegnativo quanto necessario. Nel migliore dei casi hanno subito un processo di infantilizzazione che però, naturalmente, non li ha salvati dalla necessità di una messa in discussione.

Siamo andati avanti così per molti decenni quando, a un certo punto, il ruolo di una figura paterna, non direttamente genitoriale, si è fatto notare per la sua assenza.

Cosa è mancato e cosa manca ancora nella nostra vita affettiva e sociale? La figura del maestro. Naturalmente si fa riferimento a quelle figure, uomini e donne che siano, che esercitano la loro leadership senza violenza e senza autoritarismi ma con la forza del carisma, il desiderio di trasmettere saperi e con la capacità di proporsi alla guida di percorsi accidentati.

La necessità di riempire questo vuoto in modo qualificato, anche se non sempre, ha ricondotto molte persone, maschi in prevalenza, a misurarsi in un nuovo confronto con la figura paterna. Insomma, se il padre fugge e si nasconde, dopo un periodo di tempo, sono i figli che vanno a cercarlo.

E’ il caso che ci viene raccontato da Luciano Allamprese che nel suo ultimo libro, Il vecchio figlio pubblicato dalle edizioni Atlantide (pp 208, euro 20.00).

Allamprese sobriamente descrive la sua vita familiare partendo dalla perdita della madre, molto più giovane di suo padre, ma deceduta con largo anticipo. Ne racconta i tanti conflitti che fin da giovane caratterizzarono il suo rapporto con il padre “ossessivo e pedante, collerico e sentimentale”.

“Proprio come me” aggiunge il narratore. E qui sta l’interesse di un libro che spicca per la sua originalità nel panorama letterario del nostro paese.

Luciano Allamprese

Il protagonista del Vecchio figlio cerca il padre e trova se stesso. Ormai adulto maturo vede l’anziano genitore e, come in uno specchio, nota la propria immagine riflessa. Tutto quello contro il quale aveva combattuto, tutto quello che era stato oggetto di polemica e di conflitto improvvisamente sembra scomparire perché è proprio il figlio, diventato vecchio, a incarnare quei pregi e quei difetti che vedeva ben rappresentati dal genitore.

Il percorso letterario e quello emotivo che Luciano Allamprese compie è tutt’altro che semplice. Non lo è perché il libro è stato partorito dopo molti anni di gestazione. E non lo è perché coinvolge la dimensione profonda dell’essere figlio, prima bambino innamorato della figura paterna, poi adolescente ribelle, infine uomo maturo che si accosta al proprio padre con una certa sicurezza e invece trova elementi del carattere che non pensava potessero ancora legarlo al genitore ormai vecchio e malato.

Forte di una scrittura antica semplice ma molto elegante, come ormai è raro vedere tra gli scrittori italiani contemporanei, il libro di Luciano Allamprese costituisce un’occasione di riflessione quasi esistenziale sulla necessità e forse sull’impossibilità di fare i conti con la costruzione della nostra identità, sia che questa costruzione avvenga in forma armonica sia che avvenga invece in via conflittuale.

Sappiamo che nulla è determinato in via definitiva, ma Il vecchio figlio ci fa riflettere quanto forti siano i legami della cultura e della genetica.

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