Durante la guerra fratricida in Bosnia, nei rifugi senza corrente elettrica, per contrastare il rumore delle sirene e degli aerei, si leggevano le poesie di Izet Sarajlić. I poeti facevano “il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo” narrando versi a memoria.

Racconta Erri De Luca che mentre Sarajevo veniva bombardata Izet scriveva “in una notte come questa, malgrado tutto, pensi a quante notti d’amore ti sono rimaste”. La poesia diventa patria di ogni rifugiato per continuare ad abitare nella terra strappata. Non solo le poesie. Anche la musica è stata una grande forma di resistenza. Nel campo di concentramento nazista di Terezin furono composti molti canti yiddish.

Calvino nel ‘58 scrisse per il collettivo Cantacronache Dove vola l’avvoltoio: “No, avvoltoio, vola via. Non vogliam mangiar più fango, odio e piombo nelle guerre, pane e case in terra altrui non vogliamo più rubar”. Le dittature temono i poeti. Penso a Platonov.

Mi commuove la sua storia personale, ha pagato un duro prezzo la sua letteratura, bandita da Stalin che internò suo figlio per colpire la sua prosa civile. Un dolore atroce per lo scrittore che in certi versi assomigliava a Cervantes nella sua lucida immaginazione.

Penso anche al poeta e cantautore cileno Victor Jara, torturato per ordine del generale Pinochet. Gli spezzarono le mani per impedirgli di suonare la chitarra e poi giustiziato con un colpo di pistola. Ma le sue canzoni di protesta resistono ancora. Numerose le canzoni contro la guerra scritte negli anni del conflitto in Vietnam, anni in cui nacque  una nuova coscienza civile dei musicisti, a partire da Dylan con Blowin’ in the wind.

La poesia e la musica sono il braccio disarmato del pensiero capace di disinnescare mine e tenere viva la memoria di ogni ingiustizia. Lo stesso Toscanini si rifiutava di dirigere la Turandot alla Scala qualora fosse presente Mussolini, rifiutandosi anche di eseguire Giovinezza al comunale di Bologna subendo l’aggressione delle camicie nere e andando poi in esilio volontario in America.

Fra le canzoni dei nostri cantautori più potenti e commoventi contro le guerre, nei giorni in cui ci manca molto Lucio Dalla, mi viene in mente la sua Henna scritta negli anni ’90, in una notte alle Tremiti, mentre il cielo viene attraversato dagli aerei spediti da D’Alema.

Close-up of the singer Lucio Dalla wearing a blue flat cap. Italy, 1976.. (Photo by Mondadori via Getty Images)

 “Adesso basta sangue ma non vedi/ Non stiamo nemmeno più in piedi, un po’ di pietà […] Io credo che l’amore è l’amore che ci salverà”.  Altra grande canzone, rabbiosa e combattente è Sulla terra dei Litfiba più ispirati che mai alla fine degli anni ’80.

Dal disco capolavoro 17 Re: “Bestie in guerra sulla Terra […] Ogni uomo spera di comandare […] Vive per questo ed uccide anche per meno/ No, io non lo voglio più/ Continuo a andare/ Un altro cuore che non batte più”.

Questa canzone e tutto il disco ha nutrito un vero esercito di giovani disobbedienti e antimilitaristi e obiettori di coscienza. Augusto Daolio con i Nomadi è sempre stato in prima linea contro la guerra, fra le canzoni più civili Uno come noi in cui raccontano i giorni di piazza Tienanmen e del ragazzo esile che ferma una colonna intera di carri armati. “Sarebbe facile dire che tu hai sconfitto un’idea/ Come se odio e violenza avessero solo quel colore/ Ma sto pensando a tutti quelli che hanno pagato nel silenzio e nel dolore, perché il carro armato non si è fermato e niente ha risparmiato/ Ti voglio dire che né politica e né religione…”.

E penso alle guerre silenziose, i profughi dei campi di concentramento della Libia finanziati dal nostro governo con le migliaia di bambini che vivono alle porte dell’Europa, scalzi, con i piedi nella neve. E a dar voce a queste piccole vittime è Enzo Avitabile con la canzone struggente Tutt’ egual song’ ‘e criature

“Vivono sotto terra a Bucarest/ sniffano colla nelle buste/ a Bagdad invece ancora si muri stanno attaccati gli schizzi d’occhi dei ragazzi/ […]ciuffi neri neri di mamma africana/ sporchi e pieni di fame non arrivano a domani […] Adda fa l’omo si è serbo o afgano/ Il Kurdistan, sempre le stesse storie/ Tutt’eguale song ‘e criature/ Nisciuno è figlio de nisciuno”.  

Questo è un viaggio fra le canzoni più segrete e meritevoli di riscoperta, al di là delle canzoni-manifesto di De Andrè (penso a La guerra di Piero) o Guccini (Auschwitz), entrate già nei libri di letteratura e nella cultura popolare.

Pensando al cielo di Odessa, bombardata dai russi, mi viene in mente Il re di Raf. La storia di un pilota che prima di bombardare decide di disertare spegnendo il motore: “Volo di notte sulla marea / Inizia così un’altra odissea / E’ ora è il mio turno, manca un minuto ormai/ Ma questa notte di fine agosto chissà dentro di me qualcosa non va / Una stella cade giù come fosse colpita da una contraerei / Qui dall’alto la città sembra un grande luna park / Obiettivo in vista a ore sei / Sono pronto dai l’ok? / Ma poi virando vado via / Una guerra è una follia / Spengo il motore in silenzio così / Sento il mio cuore, i suoi battiti / Gira il mondo intorno a me / In un grande vortice / In caduta libera / Liberando l’anima”.  

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