Da qualche settimana è uscito nelle sale Kripton un docufilm di Francesco Munzi, prodotto da Cinema 11 e RaiCinema e distribuito da Zalab, che indaga la vita di sei ragazzi, tra i venti e i trent’anni, soggetti a ricovero volontario in due comunità terapeutiche del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 1. Sei ragazzi di diversa estrazione sociale, culturale e nazionale che combattono con disturbi di personalità, disagi mentali e stati di alterazione.

La realizzazione del docufilm sui disagi giovanili

Per realizzare questo racconto il regista e una piccolissima troupe di supporto hanno trascorso, nel 2022, cento giorni all’interno di queste due strutture per cercare di avvinarsi progressivamente ai pazienti senza spaventarli ma, al contrario, cercando di far scomparire la macchina da presa per provare a raggiungere una maggiore naturalezza. In questo, la forma narrativa del documentario fatta da interviste, colloqui e riunioni con i medici e le famiglie, ha sicuramente funzionato.

Sono andata a vedere Kripton su consiglio del mio terapeuta e non nego che fossi un po’ preoccupata, temevo che mostrare immagini interne di un CSM potesse rivelarsi ansiogeno e soprattutto rischiasse di alimentare lo stigma invece che combatterlo.

Francesco Munzi, già regista di Anime Nere vincitore di un David di Donatello per la miglior sceneggiatura, si è dimostrato invece estremamente delicato nel racconto lasciando anche spazio alle interpretazioni degli spettatori. Il film, infatti, risulta un po’ sospeso proprio come le vite dei protagonisti, si intuiscono i loro disagi senza però indicare quali siano effettivamente le diagnosi (credo anche per una sacrosanta questione di privacy), si lasciano qua e là indizi che lo spettatore può cogliere per ipotizzare da dove nascano questi disagi ma si lasciano domande senza risposta. È come se quei cento giorni vissuti e raccontati non avessero né un prima né un dopo, sono una bolla, un qui e ora, che incuriosisce, pone interrogativi e apre alla speranza.

Se da un lato questo espediente narrativo rischia di essere un po’ superficiale, soprattutto se ci sia aspetta un documentario didascalico per addetti ai lavori, dall’altro aiuta a normalizzare una realtà che, come ci dicono i dati, colpisce sempre più persone ma ancora troppo soggetta a pregiudizi e tabù.

Nel corso della proiezione, ascoltando le parole dei ragazzi, la cosa che mi ha colpito di più è stata la loro spiccata intelligenza accompagnata, per alcuni più che per altri anche a causa del gap linguistico, da una vasta cultura e un’elevata proprietà di linguaggio. Inutile negarlo, nell’immaginario collettivo i ricoverati psichiatrici vengono spesso identificati con persone che non sono in grado di parlare, di articolare un pensiero di senso compiuto o addirittura che non sono autosufficienti. Nel racconto di Munzi, al contrario, i pazienti hanno momenti di estrema lucidità e, anche quando effettivamente i loro concetti sembrano non avere senso, vengono espressi con così tanta convinzione e dovizia di particolari da renderli credibili.

Il rapporto con le famiglie dei ragazzi intervistati

C’è poi il rapporto con le famiglie. Kripton racconta i sacrifici, i dispiaceri, le preoccupazioni, la rabbia, la delusione, l’incredulità, l’incomprensione e l’amore dei parenti dei ragazzi ricoverati. Pur non essendo loro i protagonisti, nelle scene in cui sono presenti, vengono condensati tutti gli stati d’animo che chi fa parte della vita di un paziente psichiatrico si trova ad affrontare almeno una volta.

C’è chi ha già raggiunto un grado di accettazione, chi è stanco, chi è arrabbiato con il mondo, chi è rassegnato, chi semplicemente non c’è. Eppure, anche in questo caso, la sensazione che ho provato è quella di un ribaltamento del paradigma: per una volta l’empatia era tutta rivolta ai pazienti, non c’è traccia di quel classico atteggiamento di condiscendenza tipico di chi osserva (genitori fortunati) chi sta peggio (genitori sfortunati). Non si percepisce nessun dispiacere per i parenti ma solo la necessità di far comprendere che sono i pazienti, figli o fratelli, ad essere al centro, che sì è sicuramente faticoso ma non è eroico scegliere di stare loro accanto.

La nota dolente arriva al termine del film con le didascalie che riportano i dati, sempre più allarmanti, delle richieste di intervento ai DSM, dell’uso di psicofarmaci, del numero di pazienti presi in carico dalle strutture residenziali. Uno schiaffo che riporta alla cruda realtà, che fa scoppiare la bolla di cui sopra, rendendo le storie dei protagonisti non più sospese e esclusive, ma calate nella vita quotidiana di tutti, anche di chi si ostina a pensare “a me non potrà mai capitare”.

KRIPTON | Trailer ufficiale

Consiglio a tutti la visione di questo documentario, agli addetti ai lavori, ai pazienti, agli ex pazienti, alle famiglie e anche, e soprattutto, a chi pensa che quando si parla di uno stato di emergenza rispetto alla salute mentale si stia esagerando. Purtroppo, come spesso accade per prodotti di questo tipo e di questo calibro, non sono molte le sale che lo proiettano, non resta quindi che restare in attesa della versione on demand sul sito di ZalabView.

“La follia mi sembra la più efficace e la più contemporanea tra le possibili metafore che illuminano il nostro tempo, visto il senso di “irrealtà” che a volte sembra aver inghiottito tutti quanti”

ha scritto Munzi nella nota di regia, mi sento di dire: obiettivo raggiunto!  

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