Nel libro pubblicato di recente da Einaudi, Antonella Lattanzi racconta proprio questo, la sua battaglia per fare un figlio. Lo fa con grandissima sincerità, scegliendo di non tralasciare neanche gli elementi più crudi. Cose che non si raccontano (Einaudi, pp 216, euro 19.00) è la storia autobiografica di un percorso che in breve diventa una sfida con forte tormento.

Chi è Antonella Lattanzi

Antonella Lattanzi, pugliese di nascita e romana di adozione, è scrittrice e sceneggiatrice. Molto apprezzati sono stati i suoi libri: Devozione, Prima che tu mi tradisca e Questo giorno che incombe. Negli anni e con il duro lavoro Antonella Lattanzi è riuscita a coronare il desiderio di diventare scrittrice che aveva coltivato fin da giovanissima.

Per questo motivo, a suo tempo, scelse deliberatamente di rinunciare alla maternità. Le due occasioni avute nel passato si risolsero con due aborti, voluti, scelti. Sapeva di non avere tempo né testa per la maternità.

Una volta giunta ai quarant’anni, in una condizione professionale e affettiva consolidata e soddisfacente, Antonella Lattanzi pensa che sia giunto il momento di diventare madre. Per una serie di ragioni si decide per tentare la strada della procreazione assistita. E qui ci si trova nel cuore del libro.

In una storia che è giusto non raccontare qui. Ci basti sapere che nulla ci proteggerà dalla vista del sangue – fin dalle prime pagine. Dall’angoscia di aspettative che vengono deluse. Dai continui prelievi, dai ricoveri e dalle infinite ecografie. Da un rapporto poco felice con il personale medico. Dalla relazione con il proprio corpo che patisce e si contorce ma che esprime anche molta forza e il desiderio di una nuova vita.

Antonella Lattanzi arriverà a maledire le ragioni e le giustificazioni che nel passato l’avevano portata e scegliere di non partorire.

Lei prova e riprova, spesso con esiti dolorosissimi per il proprio corpo e per la propria stabilità emotiva. E’ una combattente. Non si rassegna facilmente. Si affida ai medici, naturalmente. Ma spesso non ne ricava il giusto e atteso riscontro. Il dottor S. sentito al telefono non riesce a far altro che solidarizzare.

Un romanzo che è una liberazione

Il libro a volte è frammentato, come se proponesse appunti o anche fosse un diario scritto all’istante. Vi sono riportati perfino i referti e i resoconti delle analisi e delle ecografie. Ma quello che più ci inchioda a riflettere sulla vicenda sono le pagine e gli spazi bianchi. Senza parole. Senza scrittura.

Il proprio corpo ridotto a una macchina, da raschiare, da pulire, da monitorare. Le pochissime parole di chi ti vuole bene e che, in determinate condizioni, non può far altro che passarti la responsabilità della scelta. E sei di nuovo sola.

Eppure il non detto, il non scritto fa già parte dello scenario in cui la protagonista viene immersa: in ospedale non si dice (non si può dire?) raschiamento ma solo revisione uterina. Le richieste, le chiamate, le urla (!) verso e contro le infermiere non ricevono risposta. Molti codici comunicativi saltano per aria. Come quello di abiti eleganti e costosi che per la tua vicina di letto ti fanno sembrare una zingara.

Ma non si molla. Non si deve mollare. Nonostante tutto ci si aggrappa alla vita, al lavoro, lei come il suo compagno regista che fa la spola tra il set e l’ospedale.

La parola riprende il suo posto e il suo valore. Viene sottoposta a una selezione chiara e definitiva perché del dolore direttamente si decide non parlare. Il romanzo prende forma. Tra le righe si fanno strada passioni e sentimenti, dubbi e incertezze, rimpianti. E la forza della scrittura è molto grande e riporta dentro di sé tutto quello che è accaduto. Proprio tutto, compreso i percorsi non andati a buon fine.

Un libro catartico per chi l’ha scritto, sconvolgente per chi lo legge ma anche un esorcismo che elimina il male e rimette con i piedi sulla terra. Una liberazione.

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