Il romanzo di Roberto Cotroneo La cerimonia dell’addio ci spinge a riflettere sulla morte, sulla sua ineluttabilità e ci pone dinanzi a un grande quesito: come sopravvivere dopo la perdita di chi aveva creato con noi il significato della nostra vita? È possibile? Ha valore una vita che si spende nell’attesa?

“Impossibile continuare senza te, impossibile non continuare senza te“.

È questa, come sottolinea Beckett, l’aporia a cui ci pone innanzi la morte. Perdere qualcuno che si ama significa di fatto perdere la vita per come l’avevamo conosciuta. Proprio la morte ci pone innanzi in maniera evidente come nessun essere umano sia autonomo e possa pensarsi come monade, come nessun uomo sia un isola ma piuttosto un arcipelago in cui ogni parte rende somma di ciò che siamo.

La cerimonia di un addio, il sapore diverso delle cose

Non esiste momento della vita in cui non siamo relazione. Non possiamo che non pensarci come tale, tuttavia, ci sono alcune relazioni che creano significato, che danno un sapore diverso alle cose come direbbe una persona a me cara. Ecco che quel sapore è creare insieme dei significati condivisi: è quella condivisione di significato che unisce le persone.

Come spesse volte ho detto credo che l’animale umano sia l’animale del senso: cerchiamo sempre un senso in ciò che facciamo, non ci piace agire senza che quell’azione indirizzi la nostra vita verso una direzione e abbiamo la necessità di comprenderlo e radicarlo dento di noi, come una trama che dia una rotta alle nostre vite. Non si tratta necessariamente di teleologia e quindi di uno scopo ma di sapere che, come direbbe Hilman (Il codice dell’anima),

“siamo dentro la nostra missione”.

Ecco, non credo che la missione possa essere un viaggio solitario che compiamo sopra la zattera del nostro narcisismo: abbiamo bisogno dell’altro per risplendere perché non possiamo creare senso né significato in maniera autonoma.

Questa evidenza si spalanca quando viene a mancare qualcuno con cui abbiamo creato significati condivisi, quel qualcuno che dava sapore alle cose che facevamo. Non posso senza di te ma non posso con te, eppure tutto esisteva in quella specifica maniera perché c’eri tu.

Nell’ultimo romanzo di Cotroneo La cerimonia dell’addio viene tematizzato proprio il tema della perdita e viene fatto in maniera esemplare: la protagonista perde il marito. Lo perde proprio: non si sa se sia morto, se sia andato via volontariamente, se abbia smarrito la cognizione di sé e non sia più riuscito a tornare, non lo sanno i lettori come non lo sa neppure l’autore (che verso la fine del libro ci dice che lui stesso di non conosce le sorti di Amos). È come rimanere congelati all’interno di un giorno, uno specifico giorno della vita, in cui inconsapevolmente abbiamo posto i piedi giù dal letto senza sapere che avremmo visto la fine del mondo in un secondo per citare Brunori.

Anna è una donna che, scomparso il suo Amos, passerà il resto della vita nell’attesa del ritorno, costruirà un’esistenza fatta di rituali di attesa, in cui ogni elemento sia predisposto allo scopo che

“quando lui fosse tornato”

avrebbe trovato le cose tutte al loro posto. La cerimonia dell’addio diviene la sua vita: un cerimoniale appunto nel quale lei e Amos sono legati da un filo sottile ma non scindibile e in cui lei fonda il senso stesso della sua vita, riscrive i suoi significati, alla luce di questa eterna attesa. E questa attesa è colma di significato perché non la separa da Amos ma la nutre, si nutre di Amos.  

Credo che difficilmente in un romanzo si possa problematizzare in termini così radicali la questione della morte: come affrontare il lutto? Ha davvero senso superare il lutto? La vita di Anna ha avuto meno senso perché votata romanticamente nell’attesa di un ritorno?

Io credo che Anna sia la testimone di un desiderio che non si può arginare; i desiderantes erano secondo Gaio Giulio Cesare coloro che osservavano le stelle aspettano il ritorno dei compagni morti in battaglia.

Si può rinunciare a chi ha conferito senso alla nostra vita? Si possono rivestire i panni della vita?

Amos è scomparso e l’irragionevolezza del suo non esserci più si collega direttamente all’impossibilità di scoprire come è scomparso. Ogni assenza non ha senso. Ogni perdita frange un significato e lo fa la punto tale che l’unica cosa che resta è l’attesa: l’attesa di un ritorno.

C’è una fase della vita in cui l’abbandono è qualcosa che non si conosce, quando si è bambini, ingenui e ci si può ancora meravigliare, poi arriva il momento in cui l’esistenza leviga le sottili pareti dell’anima – che sono a volte troppo affusolate – e nulla torna come prima. Per questo i greci parlano di tragedia: la tragedia è quell’accadimento che scompagina l’ordine delle cose e che non permette loro mai più di tornare come prima. La vita è per questo essenzialmente tragica. Ci possono provare a dire che non è così, ma non è vero.

Anna vive la tragedia, la mastica ogni giorno come pane quotidiano e la sua tragicità si incarna in questa azione di attesa costante. L’attesa di un ritorno che riporti i luoghi ad avere la stessa forma di prima, che riconsegni al vino il suo piacevole sapore, che trasformi nuovamente la brezza del mare in una carezza e non in un gelido taglio che scava il volto. Non si superano certi lutti. Restano dentro di noi. Non si torna indietro, non si va avanti. Si resta congelati.

La vita può fare anche questo. A volte non si può avere memoria di futuro. A volte il futuro non esiste più. Capisco intimamente Anna e credo che in lei si incarni un modo di stare nella vita drammatico, romantico ma reale.

Dicono che bisogna imparare a lasciare andare, l’ho detto anche io. A volte però si deve imparare a convivere con il ghiaccio, arrendersi che si diventa quel ghiaccio. La cerimonia della vita di Anna è l’amore per Amos inteso come attesa eterna. A lui ha reso giustizia, a lui che non si sa neppure perché se ne era andato, ma certo è che era lui, Amos, il senso della vita di Anna. E altrettanto cristallino è che il cerimoniale di attesa l’ha comunque consegnata alla sua missione, lei ha protetto il suo desiderio che era quello del ritorno.

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