Apparteniamo alla generazione che sta attraversando una pandemia dove alterniamo le sensazioni di stare dentro un’ampolla di vetro a quelle di ritornare nelle nostre vite riscoprendole ogni volta ex novo, ma non a quella che annota i sogni su un quaderno. Ritorniamo indietro anche solo per un instante, ci basterebbe per ricordare quelle notti dove tutto era chiuso e per strada solo qualche persona che tornava a casa o rider che, persi, pedalavano per qualche consegna, nessun rumore e le luci dei lampioni sostituivano quelle della Luna che non riuscivamo a intravedere per colpa delle nuvole.

Daniel Pennac e la forza della sua immaginazione

Immaginate che tutto intorno sia scomparso come per effetto di un corto circuito sotto il peggiore acquazzone e ogni punto di riferimento alle certezze sia inaccessibile come quando non ci si ritrova più, e si vaga dentro set cinematografici che ti proiettano in nuove ambientazioni. Nessuno può sapere perché vi trovate in allestimenti che non conoscete, e allora è proprio nella notte che bisogna tornare indietro. Tutto è saltato, e anche la quotidianità che state vivendo. Così per proteggervi decidete di ritornare bambini: un amico fedele che divide la stanza con voi, una gita con i genitori in un posto dove poter toccare da vicino l’acqua e uno sguardo così nuovo nell’osservare il mondo che vi circonda. Tutto è perfetto e inverosimile allo stesso momento, solo che una notte alzandovi e attraversando il solito corridoio vi trovate completamente soli e l’unica fonte di elettricità è una televisione, sembra che il vostro sguardo riesca a fermare solo alcuni particolari come in un sogno che state costruendo e allora afferrate una lanterna e senza chiedere il permesso andate fuori per capirci qualcosa.

Non ci sono parole ma solo pensieri che ripetete nelle notte, quasi come l’illusione che certi film in bianco e nero vi davano, ma un frastuono da far cadere ogni essere umano a terra vi riporta in altre vite.

Dicono che non siamo noi a scegliere i libri ma sono loro che ci vengono incontro, quasi come se per uno strano campo magnetico creato dal nulla volessero parlarci e questo è un po’ quello che Daniel Pennac prova a raccontarci ne La legge del sognatore.

Parte dalla sua infanzia, che viene raccontata con molti particolari visivi, quasi come un piano sequenza che si srotola davanti ai nostri occhi dove i tempi sembrano dilatati, quasi come se le parole non volessero abbandonare quello stato di grazia particolare dell’essere bambini. Dura un attimo, e tutto assume le sembianze dell’età adulta attraverso le nostre esperienze. E allora occorre tornare indietro e, immergendoci come subacquei esperti in fondali del nostro passato, cerchiamo di annotare su un quaderno i sogni che facciamo la notte, perché gli schemi possono essere ritrovati in quella dimensione, sicuri di ritrovare in qualche angolo della nostra mente una citazione di Pessoa.  

Tutto diventa film e scrittura passando attraverso dei rifermenti che sembrano riportare in vita Federico Fellini. E allora in quale vita stiamo vivendo? Siamo nella dimensione di sogno o sta veramente accadendo tutto questo? Tutto si svolge di notte, quando il mondo dorme e ogni rumore viene amplificato non solo per chi sogna, ma anche per chi sta scrivendo, così spavaldo e sicuro di potere saltare mille vite, perché ci vuole apparire in questo modo per proteggersi ancora una volta, ma Fellini non lo può raggiungere. Prova a ripensare come ultima salvezza a Cinecittà e all’ultimo film di un regista che riceverà l’Oscar alla carriera mentre la moglie in lacrime non riesce a fermare l’emozione, ma tutto questo non è reale e passa attraverso l’insegnamento ai suoi studenti che lo riportano alla realtà e alla moglie nell’altra stanza.

Un libro, questo di Daniel Pennac, che è un sogno perché in ogni mondo esistono delle linee che formano come dei cerchi nell’acqua. Ma alla fine, Daniel Pennac di cosa aveva realmente paura?

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