Nel 2021 Mario Martone presenta a Venezia il suo Edoardo Scarpetta, in Qui rido io, dove il contrasto con un permaloso e supponente Gabriele D’annunzio funge da metafora dell’umorismo che trionfa dribblando l’arroganza del potere.

Nello stesso anno Sergio Rubini narra ne I fratelli De Filippo l’epopea di una famiglia segnata da una importante linea di abbandoni e lutti dove, come in un rovesciamento junghiano, l’orfano vince da guerriero, imponendo la sua arte sulle miserie crudeli della vita.

Con Leonora addio Paolo Taviani racconta la tragicomica sistemazione dei resti di Pirandello, e ancora questi giorni in sala La stranezza di Roberto Andò, che attraverso l’immancabile Toni Servillo, ricostruisce la nascita dai tratti onirici dei celeberrimi Sei personaggi in cerca d’autore, dalla penna di un medesimo Luigi Pirandello perso tra veglie funebri e amniotiche creatività inedite.

Senza tornare ai proiettili su Broadway, a zio Vanja sulla quarantaduesima strada o a Birdman, l’Italia riscopre dunque, quasi simultaneamente, nel suo ventre, i suoi grandi drammaturghi meridionali (a quando una ricostruzione dei più aspri Ronconi… Strehler?) e il giusto orgoglio dei natali donati al genio di Scarpetta, Eduardo, Pirandello.

Forse, mi domando, perché la chiusura pandemica delle sale ha imposto il brivido di una scomparsa possibile e irrimediabile di un contesto che nel contatto umano, nelle risate a scena aperta, negli applausi e negli sputi sfuggiti a un monologo impegnato trova la sua radice di vita primigenia.

Forse per l’incalzare incessante della produzione web, del moltiplicarsi delle piattaforme di produzione e distribuzione, per la fatica di restare vivi come professionisti di teatro in assoluto, o per non dissolversi in quella parvenza d’identità un tempo solida, che sembra assottigliarsi ogni giorno di più tra le ragioni del commercio e quelle della comicità televisiva, i nostri migliori registi sembrano aver avvertito l’esigenza insopprimibile di consegnare alla forma stabile della pellicola l’origine del loro stesso terreno formativo.

E tutti lo hanno fatto bene, pur in forme più o meno accessibili al grande pubblico –immediato Rubini, poetico e suggestivo Martone, rocambolesco Taviani, quasi metafisico Andò, trattando la materia con la doverosa profondità, senza per questo diventare ostici.

Strana è di certo la scelta di Andò nel selezionare due comici come Ficarra e Picone a fare da contraltare alle suggestioni iniziatiche del genio, in una continua ibridazione tra angoscia e risata liberatoria, tra dramma e farsa, una realtà esperita e una realtà sognata che crea in circolo virtuoso nuovi linguaggi e nuovi mondi.

Sarà la tumulazione della balia, dolore quasi proustiano, o la negazione erotica della moglie arresa alla follia, ma pare proprio nell’interregno tra immaginazione sfrenata e compensativa, lutto estremo, fuga e una presenza straniata e lucidissima che consista quell’humus che saprà sconvolgere le regole del teatro, permettendo ai personaggi di presentarsi reclamando consistenza al proprio autore, disorientando il pubblico abitudinario oltre l’oltraggio, lo scandalo imperdonabile, pur di seguire quella suggestione che a tutto, oltre ogni aggiustamento compiaciuto e furbo, sa dare consistenza. Il dono che ci manca oggi, sovranamente.

Il teatro nasce, si rivoluziona, affronta fischi e improperi per dirompere rivoluzionando credenze e luoghi comuni, stili e consuetudini, con la convinta imperturbabilità del genio, proprio forse per la sua capacità di distacco dalla vita stessa.

Il cinema, il nostro cinema recente, immortala questa consacrazione, sottraendo alla banalità, fissando quella meravigliosa impermanenza di ogni nuova replica, ricreando con doppio salto mortale la verità reinterpretata di biografie complesse, dove la vita diventa teatro, il teatro cinema, la melanconia gioia furiosa, la stranezza prezioso simulacro di eternità, lezione fragile e immortale, come mai prima necessaria. Per la cronaca, campione d’incassi al botteghino. Strano ma vero.

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