Tra le divinità adorate nei tempi antichi, ce n’era una che aveva la facoltà di guardare il presente e il futuro, di controllare il dentro e il fuori, di sovrintendere a tutti gli inizi, di proteggere i passaggi e, più concretamente, le porte.

Giano era una divinità bifronte, con doppia faccia (avanti e dietro), doppi occhi, doppio sguardo, doppia anima, doppio tutto. Il suo nome faceva riferimento al termine latino ianua che significava porta e a lui si consacrava tutto ciò che nella vita consisteva in un nuovo inizio, una nuova fase, una nuova era.

In fondo la porta è il luogo da cui si entra e da cui si esce, da dove si va e da dove si viene, dove si è e dove non si è più. Giano è eponimo per il mese di gennaio, il primo mese dopo il solstizio invernale e il primo del nuovo anno.

Era un dio romano de Roma, non esisteva infatti un suo corrispettivo nel Pantheon greco, ed era anche il dio della fase primordiale della città, quando Roma non era stata ancora fondata e la vita si svolgeva sui sette colli. Basti pensare al Colle Gianicolo (l’ottavo di Roma), che da Giano prendeva il nome e in cui il dio fondò, secondo il mito, una leggendaria città in cui ospitò Saturno cacciato dagli dei dell’Olimpo.

Sul colle, Giano insegnò i costumi del vivere civile agli uomini aborigeni – non vi sorprenda il termine che deriva da “ab origine” ossia dall’origine, autoctoni – popoli originari del Lazio. La posizione del colle, al di là del Tevere, che apre al territorio dell’Urbe, con uno sguardo verso la città e uno verso l’esterno e alla terra degli Etruschi noti nemici di Roma, vi può rendere ragione del senso di questo dio che protegge, guarda, controlla, introduce.

L’Arco di Giano e la Fondazione Fendi

C’è un luogo dedicato al dio e restituito alla città dopo l’inaugurazione che ha visto un’attiva collaborazione tra la Soprintendenza Speciale di Roma e la Fondazione Fendi: é l’Arco di Giano.

Il monumento è aperto al pubblico da novembre 2021 ogni sabato mattina, e vi invitiamo  davvero a visitarlo. L’Arco di Giano è l’unico arco quadrifronte di Roma, cioè con 4 fornici di accesso. Fu eretto al Velabro nel IV sec. d.C. dopo la morte di Costantino dai suoi figli ed era noto dai Cataloghi Regionari come Arcus Constantini, ma noi lo chiamiamo diversamente. L’area, lo ricorderete, fu interessata dai terribili attentati mafiosi del 28 luglio 1993, quando una bomba posizionata in una macchina parcheggiata nel vicino Arco degli Argentari, ferì in maniera sostanziale i dintorni.

L’inaugurazione dell’Arco avvenuta il 5 novembre 2021 ha visto una performance interessantissima a cura di Raffaele Curi per la Fondazione Fendi dal titolo NU-SHU Le parole perdute delle donne. Una forte denuncia sul femminicidio e la prevaricazione femminile raccontata attraverso l’unica lingua al mondo parlata solo da donne e creata in Cina.

È il NU-SHU, quasi un codice cifrato, inventato dalle donne per escludere gli uomini dai meandri segreti della comunicazione femminile intima, tema che vi invitiamo ad approfondire con il libro di Giulia Falcini ll Nushu. La scrittura che diede voce alle donne. Ben si collega questa esperienza al monumento che è davanti all’Arco di Giano: l’Arco degli Argentari.

Arco degli Argentari: il monumento in cui va in scena una Dinasty familiare
da 2000 anni!

Se passate di là dunque, non potete non ammirare il quasi dirimpettaio Arco degli Argentari che, costruito nel 204, restituisce dopo 2000 anni una Dinasty familiare senza tempo, interrotta solo da omicidi, ammazzamenti vari, esili. Guardate dunque bene l’Arco, non tanto per vedere ciò che c’è, ma ciò che non c’è, ciò che è stato cancellato dall’inesorabile scure del giudizio degli antichi e, aggiungeremo noi, anche dal senso della prevaricazione contro le donne.

È la triste sorte che colpisce Plautilla, moglie dell’imperatore Caracalla, e cancellata da tutti i monumenti per damnatio memoriae subito dopo il divorzio. Secondo gli studiosi, l’Imperatrice era rappresenta nella fascia interna dell’Arco degli Argentari accanto a suo padre (oppure sola) e allo stesso Caracalla mentre officiavano un sacrificio, ma il suo ritratto fu eraso, sfigurato possiamo dire, come tante donne al tempo di oggi, maltrattate nel volto e nell’anima!

Figlia del prefetto del pretorio Plauziano, andò in sposa all’Imperatore Caracalla nel 202 quando era poco più che adolescente, ma invisa a questi, fu dapprima mandata in esilio nell’isola di Lipari nel 205 e poi condannata a morte nel 212 d.C.

Non fu l’unica ad essere cancellata da quell’arco, anche Geta, fratello di Caracalla, fu obliterato dopo la sua morte. Pensate che, con un tranello e fintamente, fu invitato dal fratello al cospetto della madre Giulia Domna (moglie di Settimio Severo e madre di Caracalla e Geta, tutti raffigurati nel monumento) per suggellare un periodo di pace.

Non appena arrivato, Geta fu raggiunto da una serie di colpi mortali orditi da Caracalla che lo portarono ad accasciarsi tra le braccia della madre. Non sapeva bene quest’ultima se gridare all’omicidio del secondogenito o tacere davanti alla follia del primo: fu tuttavia pure lei vittima degli avvenimenti e restò in silenziò.

Chissà cosa avrebbe pensato il dio Giano riguardo la storia di Plautilla e di Geta e della loro damnatio memoriae. Per una divinità che guarda oltre il presente e il cui monumento, sebbene in anni diversi, è posto davanti a due condannati a morte dai loro contemporanei e dai propri congiunti per non si sa quale dubbia ragione, la riflessione è davvero necessaria… soprattutto se si considera che Giano aveva indicato agli uomini il senso del vivere civile.

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