Io Roberto Roversi l’ho conosciuto, ma non l’ho riconosciuto.

Capisco adesso che era nel suo stile presentarsi come libraio senza dare indizi sulla sua identità (avete mai chiesto a un libraio appena incontrato il suo nome e cognome, voi?). Del resto i libri erano davvero la sua vita. Avevo poco più di vent’anni, mi ero appena trasferita a Bologna e – come disse mio padre quando assieme scoprimmo con chi avevamo avuto a che fare quattro anni dopo la sua morte – del resto dei poeti non si conosce il volto.

Se Roberto Roversi fosse ancora qui sono sicura che mi recherei in quel luogo magico che era la libreria Palmaverde, il suo habitat, per un confronto intellettuale sulla questione ecologica. Mi sono fatta l’idea infatti che la storia sia andata così: mentre in ambito anglosassone dalla fantascienza e dall’utopia nasceva negli anni Settanta il genere cli-fi, in Italia chi intercettò i temi ecologici – anticipando l’attuale ecopoesia – furono i poeti e i cantautori. Sono sicura di averlo già scritto in quell’articolo dove non a caso metto assieme Pasolini, Gaber e Celentano. Roberto Roversi, amico di Pasolini e per molti versi su una lunghezza d’onda affine, decisamente si accorse del grosso danno fatto dall’industrializzazione e dal boom economico sulla mentalità della gente.

Nel documentario La macchia di inchiostro uscito da poco, si citano proprio le sue stesse parole: aveva fatto sua l’espressione pasoliniana di genocidio culturale. La stessa idea di mercato culturale di massa lo faceva comportare in maniera al giorno d’oggi quasi incomprensibile: per molto tempo si rifiutò di pubblicare per grandi editori – nonostante personaggi del calibro di Italo Calvino per Einaudi lo scongiurassero – ma contemporaneamente iniziò una fruttifera collaborazione con Lucio Dalla che portò alla luce tre album complessi e molto belli (Il giorno aveva cinque teste, Anidride Solforosa, Automobili). Il connubio fra musica e poesia lo attraeva, tuttavia ancora una volta quello che lo fece ritirare fu il compromesso con il mercato: la RCA sfoltì la tracklist di Automobili e Lucio Dalla, che era loro dipendente da più di dieci anni, se la fece andare bene.

Non amava i concerti di massa, Roberto Roversi, li vedeva come un trionfo del rituale di consumo. Eppure il suo pezzo più celebre, Chiedi chi erano i Beatles, è uno dei cavalli di battaglia di un gruppo che di concerti di massa ne ha fatti talmente tanti da essersi scelti il nome evocativo di Stadio.

Frammentario, autarchico prima di Nanni Moretti, inafferrabile. Forse per questo ultimamente riscoperto. Un sito web voluto dalla famiglia e dalla Pendragon si prefigge lo scopo di radunare tutta la sua produzione e, considerato quanto il personaggio sia sfuggente, si tratta di un lavoro non da poco. E ad aprire il sito, cosa che consiglio caldamente, c’è da perdersi. Incappo ad esempio in una poesia che sembra di oggi, ma è stata scritta tre anni dopo la mia nascita, nel 1988; leggendola avrei giurato che fosse del 2010, forse perché l’espressione rubano il futuro, come scrive anche Cecilia Ghidotti, è stata poi abusata in quegli anni. Il titolo è: Quali e quante simmetrie per i nuovi padroni. Scrive Roversi:

Non posso parlare dei giovani perché non so
ma posso cercare di capire
per capirli
perché la mia giornata ormai sull’orlo
non si consumi soltanto in piccoli fuochi
“Il sorgere della cattiva luna”
porta a cattivi pensieri
ma il giorno di sole brucia (brucia, ragazzo, brucia)
non dormire, ti rubano il futuro
le gole d’oro le mani di neve e alla notte
corrono a frugare cancellano gli anni
ti preparano ai capelli bianchi ai cavalli azzoppati
VOGLIONO LISCIARE LA TERRA LASCIARLA DESERTA
ma tu cresci sulle onde alzati leggero e tocca i fumi
con gli occhi si può ferire il nemico
la ribellione del cuore si presta a cento travestimenti
contro
i falsi gabbadei i colli torti
i cagasotto della nostra età.
I CHIODI ARRUGGINITI
GLI ULTIMI ALBERI
le fabbriche come cattedrali spiritate
senza rumore suono senza voce
l’uomo lì muore come nella foresta

Gli si vuole bene già dall’incipit. Oggi è facile accusare chi è giovane senza sapere qual è la sua vera condizione, quali sono i lavori che si trova davanti, qual è la flessibilità richiesta che spesso chi punta il dito non accetterebbe mai. Questa è la poesia di un ultrasessantenne dalla mente giovane che sprona i suoi coetanei e coetanee ad aprire la loro e a non essere vittime delle facili contrapposizioni generazionali – ed erano gli anni Ottanta, quando le cose non erano neanche così complicate come adesso.

La lucidità di Roberto Roversi non fa distinguo tra le fabbriche, il profitto come religione che le rende quasi cattedrali malate, gli sfruttatori, la terra inaridita e consumata come consumato rischia di divenire il ragazzo, gli ultimi alberi. Perfino oggi parte della sinistra più attaccata al concetto del lavoro avanti a tutto – ambiente incluso – fa fatica a vedere ecologia e lotta per i diritti di chi lavora dallo stesso lato della medaglia. Roversi invece già aveva intuito che il concetto base del consumo – mi servi, ti prendo, ti butto – nel consumismo è applicabile anche alle persone, anche al non-umano, anche addirittura ai ricordi che sono il tema della già citata Chiedi chi erano i Beatles.

Qualcuno, forse Alessandro Bergonzoni, ha detto che Roversi è ancora tutto da scoprire. Bene, facciamolo. C’è ancora molto che può dire al presente.

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