L’Etica dello Sguardo: le Fotografie (non) possono cambiare il Mondo
A Lodi, dal 27 settembre al 26 ottobre c'è il "Festival della Fotografia Etica". Non un evento, ma uno spazio di resistenza. Non un feed da scorrere, ma un luogo fisico.

A Lodi, dal 27 settembre al 26 ottobre c'è il "Festival della Fotografia Etica". Non un evento, ma uno spazio di resistenza. Non un feed da scorrere, ma un luogo fisico.

«Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. / Io rispondo che certo sì le mie poesie / non cambieranno il mondo». Con questa disarmante e lucidissima dichiarazione, Patrizia Cavalli apre la sua raccolta d’esordio del 1974, tracciando una linea invalicabile tra l’opera d’arte e la sua presunta efficacia politica. Non è un lamento, né una capitolazione. È, al contrario, un atto di radicale onestà intellettuale, una liberazione dall’onere demiurgico che la modernità ha spesso imposto all’artista.
La poesia di Cavalli, intessuta di quotidianità, di introspezione quasi spietata e di un’anatomia precisa del sentire, rifiuta di farsi strumento. Non si propone di alterare le strutture del potere, di mobilitare le masse o di correggere le storture della storia. Definisce, piuttosto, uno spazio diverso per l’arte: quello della testimonianza personale, della salvaguardia del sé di fronte a un mondo che tende a dissolverlo.

Questa premessa, apparentemente così lontana dai campi di battaglia del fotogiornalismo, è invece il punto di partenza essenziale per comprendere il paradosso che definisce la nostra epoca.
In un’era di iper-visibilità, in cui immagini di crisi globali ci raggiungono con la velocità di un clic, cosa chiediamo realmente all’arte, e in particolare alla fotografia? Ci aspettiamo ancora che “cambi il mondo”, o siamo pronti ad accettare che la sua funzione sia più sottile, più intima e, forse, più fondamentale? L’interrogativo che guida questa analisi è proprio questo: se l’arte non può, da sola, smantellare i muri, fermare le guerre o svuotare i mari dai corpi, a cosa serve?

La risposta, come suggerito dalla stessa natura di un evento come il Festival della Fotografia Etica, risiede nella sua capacità di costringerci a compiere un’azione preliminare a qualsiasi cambiamento: non distogliere lo sguardo.
La rinuncia di Cavalli al potere trasformativo esterno non è una dichiarazione di impotenza, ma l’affermazione di un potere diverso, interiore. La sua poesia, pur negando la propria capacità di cambiare il mondo, è un atto di resistenza contro l’annullamento, un’affermazione dell’esistenza individuale. Questo suggerisce che il primo “cambiamento” che l’arte opera non è sulla realtà esterna, ma sulla coscienza di chi la crea e di chi la fruisce. È una forma di resistenza all’apatia, un esercizio per mantenere intatta la nostra capacità di sentire. In questo senso, la funzione etica dell’arte non è quella di fornire soluzioni, ma di preservare la condizione umana che rende possibile la ricerca di tali soluzioni.
È l’atto di impedire che il mondo ci cambi in peggio, rendendoci insensibili.
Ed è proprio su questo terreno, tra la disillusione e la necessità, che si colloca la fotografia etica, un linguaggio che, come la poesia di Cavalli, accetta i propri limiti per scoprire la propria, insostituibile, funzione.

Il 2 settembre 2015, su una spiaggia di Bodrum, in Turchia, la fotografa dell’agenzia DHA Nilüfer Demir si trovò di fronte a una scena che avrebbe segnato l’immaginario collettivo globale.
L’immagine del piccolo Alan Kurdi, composto sulla sabbia come se dormisse, avrebbe dovuto cambiare il mondo. E non l’ha fatto. Quella fotografia, scattata il 2 settembre 2015 dalla fotografa Nilüfer Demir, ha fermato il respiro del pianeta. Il corpo di un bambino di tre anni, in fuga con la sua famiglia dalla guerra in Siria, divenne il simbolo della tragedia, un pugno nello stomaco collettivo che sembrava potesse scuotere le coscienze per sempre. Per un attimo, ci siamo sentiti tutti uniti nell’orrore e nella compassione. L’impatto fu immediato: un’ondata di donazioni alle ONG e un’apertura, seppur temporanea, delle frontiere.
Ma cosa è rimasto di quello sdegno, dieci anni dopo? Le rotte della disperazione sono ancora piene di corpi. I muri si sono alzati più alti. La cronaca si è abituata a contare i morti in mare con freddezza statistica. La foto di Alan, da icona di una tragedia da evitare, si è trasformata nell’emblema del “vergognoso naufragio della nostra civiltà”.
Viene in mente la certezza disarmante di Patrizia Cavalli: «Le mie poesie non cambieranno il mondo». Forse neanche la fotografia, per quanto potente, può farlo. L’emozione è una fiammata, l’empatia un’onda che, dopo aver toccato la riva, inevitabilmente si ritira. La compassione generata da un’immagine virale è spesso effimera, un sentimento intenso ma volatile che rischia di svanire con la ripetizione, portando alla desensibilizzazione.
La poesia e la fotografia ci mostrano la verità, ci costringono a guardare. Ma cambiare il mondo è un’altra cosa. È un lavoro sporco, quotidiano, fatto di politiche di accoglienza, di corridoi umanitari, di scelte difficili e costanti. Serve l’ostinazione di chi agisce anche quando le telecamere si spengono e l’indignazione si affievolisce. Perché il mondo non lo cambiano le poesie né le foto; lo cambiano le persone.
Eppure, quelle fotografie servono. Servono innanzitutto a chi le scatta, per fermare degli istanti, per cambiare il proprio sguardo. E servono a noi, per non voltare lo sguardo altrove. L’immagine non è un agente di cambiamento autonomo; è un catalizzatore che interpella la nostra coscienza e richiede una risposta. Il fallimento non è della fotografia, ma della nostra incapacità di tradurre la visione in azione.
Se l’emozione di un’immagine virale è destinata a svanire, come si costruisce una coscienza duratura? Se siamo intrappolati in un ciclo di indignazione istantanea e amnesia collettiva, qual è la via d’uscita? È questa la domanda a cui, da quindici anni, risponde il Festival della Fotografia Etica di Lodi. Non un evento, ma uno spazio di resistenza. Non un feed da scorrere, ma un luogo fisico – palazzi storici, chiese, chiostri – dove le immagini chiedono il nostro tempo, invitandoci a fermarci, leggere, comprendere.
Entrare a Lodi durante il festival significa accettare un patto: quello di rallentare.
Ma come si orienta lo sguardo in un mondo così complesso? L’architettura del festival agisce come una mappa per la nostra attenzione. Il World Report Award è la bussola che punta verso le “storie necessarie”, quelle che i media tradizionali spesso ignorano, premiando i reportage che esplorano l’umanità nelle sue crisi e nelle sue gioie. Il
World Press Photo è il sismografo che registra i grandi eventi globali, offrendo una panoramica del miglior fotogiornalismo dell’anno. E intorno a questi due cuori pulsanti, sezioni come
Spazio Le Vite degli Altri e Spazio No-Profit completano il quadro, esplorando la diversità culturale e dando voce a chi opera sul campo, in prima linea nelle emergenze umanitarie e ambientali.


Al centro della costellazione di storie presentate a Lodi nell’edizione 2025, una singola immagine mi ha colpito e si è imposta con una forza silenziosa e devastante. È “The Price of War”, vincitrice del prestigioso Single Shot Award, scattata dal fotografo Afshin Ismaeli (e non Fation, come talvolta erroneamente riportato). Per comprendere appieno la portata di questa fotografia, è indispensabile conoscere l’uomo dietro l’obiettivo. Afshin Ismaeli, nato in Iran nel 1985 e cresciuto in Iraq, è un fotografo di guerra norvegese la cui vita è stata plasmata dal conflitto fin dall’infanzia.
La sua biografia non è un semplice dato anagrafico, ma la chiave per decifrare il suo sguardo. Avendo vissuto in prima persona l’impatto della guerra su individui e comunità, il suo lavoro è permeato da un’empatia profonda e da una comprensione che trascende quella del semplice osservatore esterno.
Le sue fotografie, scattate in alcuni dei luoghi più pericolosi del mondo come Iraq, Siria e Afghanistan, non cercano il sensazionalismo, ma la verità umana nascosta dietro le macerie.
La sua immagine premiata, “The Price of War“, è l’epitome di questo approccio. Il soggetto è Zakhar Biryukov, un veterano di 36 anni delle forze speciali ucraine, ritratto insieme a suo figlio Yehor presso il centro di riabilitazione Superhumans di Lviv, in Ucraina.
Il corpo di Zakhar è una mappa vivente della violenza della guerra: ha perso entrambe le braccia, una gamba e un occhio, e la sua udito è parzialmente compromesso a seguito di una devastante esplosione. Accanto a lui, in piedi, c’è il figlio Yehor.
Non c’è azione, non c’è dramma esplicito. La potenza dell’immagine risiede interamente in questa quiete, nel suo contrasto stridente con il caos e la brutalità che hanno prodotto quelle ferite; nello scambio non verbale tra due generazioni, padre e figlio, che parla di dolore, di perdita, di amore e di un’eredità terribile.
Zakhar e Yehor ci mostrano cosa la guerra lascia.
Non e il ritratto di due persone ma delle conseguenze “più profonde e durature della guerra”, presenza silenziosa e vera protagonista della foto, che lega due generazioni attraverso una “ferita collettiva” che trascende la dimensione familiare.
Come ci ricorda la giuria:
“le conseguenze della guerra non finiscono quando i combattimenti sono finiti. Le ferite si trasmettono di generazione in generazione, lasciando un segno indelebile non solo su chi ha combattuto, ma anche su chi eredita quel dolore”.
L’immagine di Ismaeli rappresenta la sopravvivenza come condizione-processo.
Qui la tragedia non è un evento concluso, ma uno stato perpetuo, una ferita che continua a sanguinare nel tempo e attraverso i corpi.
Il trauma bellico, specialmente quello che si insinua silenziosamente da una generazione all’altra, è spesso indicibile, refrattario al linguaggio verbale. Le parole possono descrivere le ferite fisiche, ma faticano a catturare il peso del trauma psicologico ereditato.
La fotografia di Ismaeli riesce a visualizzare questo silenzio.
L’immagine opera là dove le parole falliscono, costringendoci a confrontarci con le conseguenze più nascoste e a lungo termine della violenza, quelle che non fanno più notizia ma che continuano a definire in silenzio innumerevoli vite.

Il percorso di questa analisi, iniziato con la rassegnata certezza di Patrizia Cavalli, ci riporta al suo punto di partenza, ma con una consapevolezza arricchita.
Le sue poesie non cambieranno il mondo, e nemmeno le fotografie esposte a Lodi, almeno non nel senso di un’azione politica diretta, di un’inversione immediata delle sorti della storia. L’esperienza dell’immagine di Alan Kurdi è la lezione più dura e istruttiva in questo senso: l’emozione più intensa, se non viene canalizzata in una volontà politica strutturata, si dissolve, lasciando dietro di sé solo il fantasma di un’opportunità mancata.
Il valore del Festival della Fotografia Etica, e di immagini potenti come quelle di Nilüfer Demir o Afshin Ismaeli, non risiede nella pretesa di fornire soluzioni, ma nell’imporre un “contratto etico” con chi guarda.
Queste opere sono strumenti di alta precisione, progettati per perforare il velo dell’indifferenza, per rendere la scelta di “voltare lo sguardo altrove” moralmente insostenibile.
La fotografia etica, nella sua forma più compiuta, non è un’affermazione dogmatica, ma una domanda radicale rivolta allo spettatore: “Ora che hai visto, ora che sai, cosa intendi fare?”.
In un mondo saturo di immagini e informazioni che generano un rumore di fondo costante, una distrazione perpetua che rischia di svuotare ogni cosa di significato, l’atto di fermarsi, di guardare con attenzione e di sentire con empatia è, di per sé, una forma di resistenza.
La fotografia, in questo senso, non è solo una forma d’arte, ma un’esercitazione di umanità, un allenamento dello sguardo e della coscienza. Ci insegna a non consumare le immagini, ma a dialogare con esse, a lasciarci interrogare dalla loro complessità.
Forse, dunque, né le poesie né le fotografie possono cambiare il mondo.
Ma servono a chi le crea e a chi le guarda per non arrendersi all’anestesia del cuore. Servono a mantenere aperta la ferita della consapevolezza, a ricordarci che dietro ogni conflitto, ogni crisi, ogni statistica, ci sono storie umane di una profondità insondabile.
Non voltare lo sguardo non è la soluzione, ma è il primo, indispensabile, irrinunciabile passo per iniziare, un giorno, a immaginare di poter cambiare davvero il mondo.
Per chi desidera esplorare ulteriormente i temi trattati in questo articolo, si consigliano le seguenti risorse:
