Che l’inferiorizzazione della donna sia stata primariamente teorizzata dall’ontologia del corpo (dalla inferiorità teorica del corpo femminile rispetto al maschile così come la propugnò Aristotele ne La Politica e altrove) è cosa nota.

Meno indagato invece il rapporto che lega la modellizzazione dei corpi e la rappresentazione sociale. Dai corsetti che stringono la vita ai piedi a forma di loto, dai corpi a fiammifero (contro cui si scagliò Marguerite Yourcenar in una intervista che è raccolta nel volume Dalla storia al cosmo. Interviste sull’opera e sul divenire 1971-1979) alla richiesta di eterna giovinezza, è il soma (cioè la corporeità) che ha sollecitato regole e attese, aspettative e richieste al soggetto femminile.

Che rapporto lega dunque il sistema modellizzante (la norma che rende un corpo socialmente accettabile a discapito di un altro) e, ad esempio, il body shaming?

La filosofa Michela Marzano e il suo pensiero sul corpo femminile

Il body shaming è quella modalità verbale, offensiva e caustica, che mira ad offendere, giudicare e inferiorizzare alcune caratteristiche fisiche (si veda per questo la relativa definizione, piuttosto ben fatta, di Treccani) sia degli uomini che delle donne.

Ma, poiché sul soggetto femminile il sistema regolatore ha agito con maggior forza ed efficacia è sulla donna che le richieste di una corporeità normata si sono maggiormente aduse, cioè abituate e concentrate.

Ecco perché vi invito a leggere Sii bella e stai zitta, il libro della filosofa Michela Marzano che tratta proprio della mercificazione del corpo della donna e di questo pericoloso ritorno di un’ideologia retrograda che vorrebbe spostare l’orologio indietro e rimettere in discussione le conquiste femminili degli anni Sessanta e Settanta.

Chi infatti non ricorda il caso Botteri? Quando di recente la valente giornalista italiana Giovanna Botteri è stata presa di mira per i suoi capelli e il suo dresscode? Se negli anni ottanta e novanta la moda rispecchiava e, oserei dire, traduceva queste aspettative sociali, negli ultimi anni grazie alle concettualizzazioni femminili e femministe, anche l’universo della vestibilità si è posto le questioni della libertà corporea del femminile e del soggetto in quanto diritto soggettivo al sé.

In questa direzione si muovono certe pubblicità (si pensi a quella del costume di Calzedonia della passata estate che prevedeva, almeno in una delle immagini proposte, una fisicità femminile sottratta al modello grissino) che stanno cercando di proporre un più ampio immaginario, sostenendo una visione delle forme che liberi le possibilità di essere delle donne e non solo.

Quanto sia importante questa riscrittura dei modelli e delle possibilità, ça van sans dire. Infatti la questione è relativa a quanto l’immaginario possa incidere sulla liceità del mostrarsi e come la referenza dei modelli ampli la declinazione dei soggetti.

Né vi è da obliare come, ad esempio, proprio il costume e il bikini nello specifico denudi il corpo rivelandone la propria esseità: la declinazione di libertà autodeterminata, senza indulgere in prescrizioni sociali o adattive.

A testimoniarne la pregnanza è la storia stessa del due pezzi: la prima apparizione è addittura testimoniata da un affresco della Villa Del Casale di Piazza Armerina mentre l’impatto sociologico della visibilità delle forme delle donne si avrà in piena guerra fredda: la storia del celebre costume a due pezzi che libera la pancia, sdoganando l’ombelico open air, è iniziata proprio il 5 luglio 1946, quando, alludendo all’Isola di Bikini, nell’arcipelago Marshall dove in quegli stessi giorni gli Stati Uniti stavano testando le loro bombe atomiche, a lanciarlo ufficialmente fu un inusuale sarto francese, tale Louis Réard.

Ma perché il bikini suscitò
tanto scandalo?

La riflessione pertiene anche alla teologia della maternità: l’ombelico come centro del corpo e come legame alla riproduzione, dunque alla sessualità.

Per questo, un nuovo modello di corpo che indossi il bikini secondo una libertà dalle forme è sempre più importante: il suggerimento, per Calzedonia, sarebbe quello di includere anche corpi differenti, per età, condizione, e varianza di genere e non.

Ciò vale, per altro anche rispetto ad altri immaginari corporei che si concentrano sul concetto più ampio di bellezza e di appeal. Perché, per liberare davvero i corpi e gli immaginari si debbono pluralizzare le opzioni e questo sovente contrasta il modello di consumo attuale che, appunto, necessita di modellizzare un corpo in funzione della vendita di un prodotto.

Ma, complice il nuovo concetto di sostenibilità, è davvero necessario ripensare proprio questa modellizzazione del corpo femminile per aprirla alla pluralità e anche le aziende dovranno riscrivere un orizzonte visivo che sia più inclusivo e paritario.

Solo così facendo infatti si sostiene il diritto di tuttɘ a de-nudarsi delle norme per acquisire la libertà del sé.

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