L’invisibile è tutto ciò che i nostri sensi non percepiscono e il nostro cervello non processa come reale. Non è sinonimo di inesistente, ma questo lo sappiamo almeno dal Settecento, cioè quando l’applicazione pratica delle lenti ha permesso la scoperta e l’esplorazione dell’infinitamente piccolo. Una cosa reale e invisibile è anche l’infinitamente grande, come gli iperoggetti di Morton: fenomeni enormi che la percezione umana non riesce a cogliere nella loro interezza. Il cambiamento climatico è un iperoggetto.

L’occhio nudo non coglie né la particella minuscola né il fenomeno massivo. Non li vediamo se non tramite strumenti scientifici specifici. Però ci sono. Questo dovrebbe aprire – ed ha aperto in contesto anglosassone – questioni filosofico-letterarie riguardanti quali storie e quali generi influenzino meglio la fantasia del lettore nel raccontare l’impercettibile, che la scrittrice/lo scrittore, per mezzo della sua immaginazione, dovrebbe contribuire a rendere percettibile o quantomeno pensato.

Perché ci interessa raccontare l’invisibile? Perché il periodo storico che stiamo attraversando si prospetta pieno di minacce invisibili piccole (l’eccesso di anidride carbonica e di altri gas serra nell’atmosfera, gli agenti patogeni) che innescano enormi fenomeni (le pandemie, il cambiamento climatico). Quanto a noi esseri umani (occidentali), forse ci hanno ripetuto per troppi secoli prima che Dio ha creato il mondo in funzione nostra poi che l’essere umano è misura di ogni cosa. Va a finire che tutto ciò che è fuori misura tendiamo a non considerarlo: questo tipo di pensiero però rischia di essere altamente controproducente per la nostra specie e di non aiutarci affatto a evitare la famosa Sesta Estinzione di massa.

Immaginare l’invisibile quindi non significa affatto creare una letteratura del disimpegno, al contrario vuol dire passare le proprie visioni agli altri (ai lettori, nel caso della letteratura) e renderli consapevoli dei problemi innescati da cause impercettibili. Dare un corpo a ciò che è visibile solo attraverso strumenti scientifici è una faccenda complessa. A livello metafisico, fa riflettere su quante cose fra cielo e terra non riusciamo né a vedere né a misurare (“There are more things in heaven and earth, Horatio, Than are dreamt of in your philosophy” diceva Hamlet a Horatio agli albori del Seicento). A livello eco-politico invece ho sentito dire da persone informate superficialmente che il cambiamento climatico sarebbe derivato da cause esterne all’essere umano, e pensarlo nel 2021, quando le misurazioni anche solo del livello di anidride carbonica (gas serra) nell’atmosfera sono in atto dal 1958, è quantomeno denegazione – se non deresponsabilizzazione.

Tuttavia, dato che l’intero processo è impercettibile, questa opinione non è ancora del tutto annoverata nella categoria assurdità. Il problema di percezione dell’invisibile si manifesta poi anche con il covid: in molta parte del dibattito pubblico, il virus scompare come se non fosse un essere vivente. Rimangono le responsabilità umane, politiche, economiche e gestionali come se una pandemia fosse altro – fosse più simile alla ricostruzione dopo un terremoto nella quale in effetti, se i danni si rimarginano a rilento, la colpa può essere legittimamente data per intero alla malapolitica o alla mala gestione. Tuttavia il virus c’è, è vivo e molta parte della responsabilità è sua. Qualcuno obietterà che questo discorso decolpevolizza le strutture che si sono trovate impreparate di fronte a una pandemia. Neanche per sogno. Nessuno decolpevolizza nessuno, semplicemente il discorso è più complesso. La preparazione o meno delle strutture sanitarie si somma all’azione del virus, a quelle preferenze e strategie che il virus stesso mette in atto rispondendo alle nostre offensive. Ecco. Forse la tanto bistrattata metafora bellica a questo punto sarebbe invece utile a far intendere meglio che questa del covid è una lotta di esseri viventi contro altri esseri viventi. E se il virus muta, mutano previsioni e strategie umane.

Raccontare l’invisibile quindi è fondamentale nella letteratura del domani. Uno dei frutti di fiction più riusciti scaturiti da simili riflessioni è The Bone Clocks, il mattone di David Mitchell, più noto per Cloud Atlas e per la collaborazione alla scrittura del sequel di Matrix prossimo venturo assieme a Lana Wachowski. Non vi fate però scoraggiare dalla mole del libro: The Bone Clocks scorre incredibilmente bene. L’autore riesce a mascherare magistralmente da eterna lotta fra il bene e il male un discorso molto serio sulla sostenibilità.

I vari libri di cui è composto The Bone Clocks, la cui narrazione non a caso inizia nel 1984, raccontano la storia di due sette: gli Horologists sono pseudo-buddisti e si reincarnano spontaneamente migrando di cervello in cervello, gli Anchorites sono una setta pseudo-massonica che ricorda un po’ i deliri di Qanon. Sostanzialmente consumano anime di bambini per garantirsi l’immortalità. Ecco il perché del titolo del libro, che si potrebbe tradurre: Le ossa a scadenza e che allude alla condizione umana (l’editore italiano ha scelto di non riprendere la metafora traducendo Le ore invisibili). Holly la protagonista, giovane e un po’ scema a inizio libro, compie un’evoluzione che la porta a schierarsi con gli Horologists ma Mitchell – grande architetto di una grande narrazione che guarda più al romanzo ottocentesco che al modernismo – fa sottilmente capire al lettore che il mondo in cui viviamo somiglia più agli Anchorites, i quali nella nostra società spesso sono totalmente inseriti – e ai vertici. Quindi, dopo la chiusura dell’arco narrativo di Holly, la cui sfida finale avviene nel campo del metafisico, arriva l’ultimo libro intitolato Sheep’s Head: una visione assolutamente realistica e dettagliata, alla maniera degli scrittori distopici, degli anni Quaranta del XXI secolo nella campagna irlandese.

Potrebbe sembrare un’appendice accattivante, invece è la necessaria conclusione: in maniera simile agli Anchorites, noi occidentali viviamo da consumatori alle spalle di altro ed altri – sentendoci superiori. Holly, che abbiamo visto adolescente negli anni Ottanta, da vecchia torna alla campagna ma senza quella patina idealistica, quel mito rurale che compare spesso nei romanzi britannici. La campagna per lei significa sopravvivenza, disponibilità di cibo garantita, possibilità di scampare, grazie anche alla protezione dei cinesi economia egemone, ai tafferugli che affollano le città. La crisi economica e sociale crea nel frattempo insoddisfazione e confusione: le manifestazioni cittadine, di cui Holly sente parlare via web i fratelli rimasti in Inghilterra, si fanno sempre più feroci – uno scenario che già nel 2021, rispetto al 2016 anno in cui uscì il libro, suona molto meno fantascientifico. Ammetto che, se l’intento di Mitchell era quello di accompagnare il lettore verso una grande avventura young adult e, con la sferzata finale, rivelarsi e in qualche modo suscitare una presa di coscienza, con me la tecnica ha incredibilmente funzionato e se oggi sono qui a parlare di quel che rischiamo è anche per sventare – o di trovare il modo per affrontare al meglio – uno scenario simile a Sheep’s Head.

Eppure la parte finale di The Bone Clocks non è certo l’unica cli-fi basata su studi e papers scientifici che ho letto. Dev’essere il percorso che fa allora la differenza: con una strategia che sarebbe piaciuta a Lewis Carroll, Mitchell stabilisce nel patto con il lettore che questo sia disponibile a immaginarsi l’invisibile. Utilizzando magistralmente le dinamiche di gioco post-moderne, l’autore educa il lettore a prendere sul serio la figurazione di ciò che non vede, a partire dalla metafisica, il campo aldilà della nostra percezione per antonomasia, arrivando in anticlimax al cambiamento climatico, un iperoggetto non direttamente percepibile ma reale e misurabile. Su di me l’impatto immaginifico (e dunque politico) di The Bone Clocks è stato maggiore rispetto a libri più didascalici come Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia, romanzo comunque assolutamente necessario e imprescindibile nella letteratura italiana. Attraverso il trucco machiavellico di sparare in alto (l’indagine metafisica) per colpire l’obiettivo basso (la consapevolezza della crisi ecologica), Mitchell restituisce all’essere umano la sua prospettiva limitata, il suo annaspare per conoscere, il suo far danni quando la propria fame di conoscenza diventa senso di onnipotenza, superiorità e prevaricazione nei confronti del non umano – e la sottomissione del non-umano inevitabilmente si rivolta contro. Non a caso, Hugo un altro dei personaggi principali di The Bone Clocks, sembra la versione young adult del Dottor Faust. 

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