“Piccole cose connesse al peccato”: il libro dell’estate che racconta l’adolescenza
Lorena Spampinato ci sorprende con un altro romanzo che è un percorso dentro un'età che resta per tutti indimenticabile.
Lorena Spampinato ci sorprende con un altro romanzo che è un percorso dentro un'età che resta per tutti indimenticabile.
Lorena Spampinato, oltre ad essere nostra blogger e, da giovanissima, mia studentessa, è una delle scrittrici italiane più promettenti, come già dimostrato con Il silenzio dell’acciuga (Nutrimenti, 2020), romanzo proposto per il premio Strega 2020 da Lidia Ravera. Piccole cose connesse al peccato (Feltrinelli, 2023) è il suo ultimo libro e per me è in assoluto il libro dell’estate!
Intervisto Lorena Spampinato per capire come nasce questa storia capace di esplorare il senso di colpa e il desiderio femminile.
Vicino Taormina, le cugine adolescenti Annina ed Enza, passano l’estate in una cameretta nella vecchia casa della nonna. Un’estate da cui non si tornerà indietro: perché?
Non si torna indietro dalle occasioni di smarrimento, dalla scoperta dello scollamento tra ciò che si deve essere e ciò che si desidera essere. Non si torna indietro da un’età che è tra le più incerte e disperate. C’è una scena molto bella di un romanzo che amo molto e che cito anche nel mio, “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides ed è la scena del dialogo tra Cecilia, una ragazzina di tredici anni che ha appena tentato il suicidio, e un dottore in ospedale. Lui le dice: Che ci fai qui? Non puoi sapere quanto è brutta la vita, giovane come sei. E lei subito risponde: dottore, è evidente che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni.
Piccole cose connesse al peccato è un percorso dentro un’età che per chiunque resta indimenticabile: perché questa scelta?
Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo mi interessava provare a guardare meglio lo spazio che esiste tra l’infanzia e l’adultità e adottare il punto di vista di chi quello spazio comincia ad abitarlo. Le domande che avevo in testa erano queste: c’è un territorio (femminile) a cui a un certo punto si viene ammessi o al quale si deve dimostrare di appartenere? E come ci si muove in quello spazio? Secondo quali regole? Cosa si cerca?
Volevo anche raccontare un’età fondamentale della vita, dove si forma molto di ciò che ci riguarda. È nell’adolescenza che riceviamo una spinta verso chi saremo un giorno. Parte tutto da lì. Non è un caso che attorno all’adolescenza si addensi una nebulosa letteraria fittissima. Gli elementi interessanti sono parecchi: la perdita dei mondi infantili spazzati via dalle trasformazioni del corpo, della personalità; l’immagine infranta della sacralità degli adulti; l’idea di dover superare una soglia per approdare a una nuova identità. È un momento che spesso si porta dietro grandi conflitti perché segna una vera rottura: mentre l’infanzia è il luogo in cui si formano le nostre credenze, rispetto al mondo ma soprattutto rispetto a noi stessi, i tabù, la nostra piramide di valori ecc., l’adolescenza è il luogo in cui tutto questo viene buttato giù, in cui tutto viene messo in dubbio, in cui per la prima volta nella vita ci interroghiamo su tutto ciò che avevamo creduto verità assoluta. È la nostra prima rivoluzione.
La tua storia sonda il desiderio e il senso di colpa: come stanno in relazione, secondo te?
Il desiderio femminile è da sempre in tensione costante tra lo spazio intimo e lo spazio investito dallo sguardo pubblico che ne condiziona le libertà. Per questo si accompagna spesso al senso di colpa, all’imbarazzo, all’idea di peccato. Negli anni in cui è ambientata la mia storia, nessuno parlava alle ragazze di desiderio, farsi carico del proprio desiderio voleva dire fare esperienza di tutt’altro: del peso della vergogna, prima di tutto. Nel suo “Quaderno proibito”, Alba de Céspedes scriveva: “Io sono una piccola borghese e sono più familiare col peccato che col coraggio e con la libertà.” È così anche per le mie protagoniste.
Lorena Spampinato è madre e figlia, e nel romanzo si sente: quale delle due esperienze ti sembra più complessa? Sono entrambe esperienze complesse. Non a caso si diventa madri e si diventa figlie dopo una separazione, una rottura, uno strappo. Come pensiamo di poterne uscire interi?
Nel libro ho voluto raccontare anche l’idea che in quegli anni l’emancipazione delle ragazze passasse anche dall’uccisione simbolica della madre. Bruna lo dice: queste madri scavano abissi e precipizi, e dentro questi abissi cadono le figlie. È chiaro che questi abissi hanno profondità diverse: la madre di Bruna, anaffettiva e feroce, scava abissi di morte. Le madri di Annina e Enza scavano ben altri abissi, fatti di insicurezza, di senso di colpa.
Mentre scrivevo provavo però una profonda tenerezza per queste madri. Avevo in testa le parole di Michela Murgia, che in una puntata di ‘quante storie’ dice che gli uomini per crescere devono uccidere i padri, mentre le donne per crescere devono perdonare le madri. È una grande verità, ma le ragazze del mio libro non potevano ancora saperlo.
Bruna, una ragazzina selvaggia, vitale, iraconda, ha una funzione narrativa specifica: come è nato questo personaggio?
Bruna viene dalle ragazze che ho ammirato e guardato e amato negli anni: quelle che agiscono, che rompono i tabù, che desiderano e che si muovono in nome della libertà e del coraggio. Quelle che insegnano a tutte che è possibile.
Che prossimità c’è tra le estati di Lorena Spampinato a Letojanni e quella di Annina ed Enza?
Ho raccontato le estati che anch’io ho conosciuto, quindi certamente. E poi c’è un’altra vicinanza. Annina si porta dietro per tutto il romanzo il suo bisogno di essere guardata, che non è mosso dalla vanità, ma dall’idea che essere visti equivalga a occupare uno spazio reale nel mondo, a esistere. Anche io, da ragazza, in quelle estati, ho cercato quello sguardo su di me e, come Annina, mai nei maschi, sempre nelle altre ragazze.
Fromm parlava di disobbedienza come atto di libertà e quindi inizio della ragione. Il tuo libro mi riporta a questa riflessione: perché?
La disobbedienza serve a far saltare i recinti, per questo somiglia moltissimo alla libertà. La mia è una storia piena di recinti, ed è costruita in modo che quei recinti saltino tutti, poco a poco, anche correndo il rischio di esporsi al pericolo, alla minaccia.
Il libro si svolge nella provincia siciliana, ma non dà quell’asfissia che tante volte abbiamo trovato nella letteratura: perché?
È una Sicilia di trent’anni fa, guardata da occhi adolescenti. E infatti la fruizione degli spazi è risemantizzata dalla giovinezza: è una Sicilia che esiste in funzione dell’esperienza personale di queste ragazze, dove emerge solo ciò che queste adolescenti possono guardare. Le vite piccole, il pettegolezzo, lo schiamazzo delle feste di paese, il modo in cui questa Terra si accende nella festa, il Ferragosto siciliano che è a tutti gli effetti un avvenimento nelle vite dei giovani. Ci sono poi le differenze tra centro e periferia: le due protagoniste vengono dalla città, da Catania, e a contatto con un gruppo di ragazzi che vivono in questo paesotto di pescatori, mettono in scena il loro ordine borghese che sarà sempre vissuto con grande conflitto. Per loro questo paese siciliano, che nel romanzo che non viene mai nominato, rappresenta un po’ quello che è Procida, ne “L’isola di Arturo” di Morante: la tentazione della terra ignota, che non si conosce e che si vuole scoprire a tutti i costi.
Amicizia, amore, violenza, paura, sfida, eros: tutto questo riguarda davvero solo l’adolescenza?
No, ma tanto di quello che pensiamo di sapere sull’amicizia, sull’amore, sulla violenza, sulla paura e sull’eros viene da lì.
Qual è la tua ricetta per guarire dalla virilità tossica?
Parlare, smantellare, decostruire. Provare a mettere in discussione i modelli e le pratiche condivise, gettare luce su quelle che sono le trappole più insidiose per la nostra soggettività. Smettere di pensarci liberi, cominciare a chiederci: lo siamo davvero?