‹‹La madre è il nome dell’Altro che non lascia che la vita cada nel vuoto, che la trattiene nelle proprie mani impedendole di precipitare; è il nome del primo “soccorritore” […] Questo significa che “madre”, al pari di “padre”, sono figure che trascendono il sesso, il sangue, la stirpe e la biologia. “Madre” è il nome dell’Altro che tende le sue nude mani alla vita che viene al mondo, alla vita che, venendo al mondo, invoca il senso››.

Massimo Recalcati – Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno

 

Ascoltando il cicaleggio di questi giorni mi sono tornate alla mente le parole di Massimo Recalcati, tratte dal libro Le mani della madre.

Mani che accolgono, curano, abbandonano. Ogni madre lo è in modo diverso. E l’Italia non è un Paese per loro. Con il termine madre intendo quell’altro da noi, di cui scrive appunto Massimo Recalcati, che trascende il sesso, il sangue e la biologia.

Il fatto di cronaca lo conosciamo tutti: nella ricca e moderna Milano una madre abbandona il figlio, scrive una lettera e lo affida alla cura dei sanitari. Si scatenano i dibattiti, gli appelli, le promesse. Siamo nel Paese delle parole sterili; dei perbenisti; dell’Ave Maria e del Family day; del giudizio e dell’immediata condanna.

È il Paese che inneggia alla famiglia e la ostacola in tutti i modi. Pensiamo al mercato del lavoro; agli stipendi delle donne; ai nidi comunali che non hanno mai posti; ai costi dei privati; a tutto quel vuoto cosmico delle politiche a sostegno delle famiglie. Pensiamo a chi vorrebbe dei figli e non può averli. Al costo delle cure; al difficile iter dell’adozione. Al trattamento riservato ai single e alle famiglie omogenitoriali.

Non è un Paese per madri, ma neanche per chi madre non vuole essere

Se una madre abbandona un figlio, per scelta o per la presa di coscienza di un’impossibilità, si scatena il teatrino sulla sacralità della maternità. C’è chi, appellandosi alla donna che ha abbandonato il figlio, ha avuto il coraggio di dire che questa creatura ha “bisogno di una madre vera”. Come se i genitori adottivi fossero un surrogato. No, non sono solo cadute di stile. È un modo di pensare radicato, una visione stantia che è vivida tutt’oggi.

È il Paese che tutela i minori e avvia una caccia alle streghe per i bambini nati nelle famiglie omogenitoriali. È il Paese in cui ai comizi si urla con violenza: “Io sono una madre”. La stessa violenza che è stata usata per commentare la morte di bambini naufraghi: una madre non manderebbe mai il figlio su una barchetta in mezzo al mare.

È un Paese che non sa tacere di fronte a una scelta legittima. Perché oltre alla disperazione e alle difficoltà una madre può decidere di rinunciare a questo ruolo e dovrebbe essere libera di farlo. In anonimato, in sicurezza. Ma l’Italia, dicevamo, non è un Paese per madri e paradossalmente nemmeno per chi madre non lo vuole diventare.

I ciclici dibattiti sulla legge 194; l’enorme numero di obiettori di coscienza negli ospedali; il polverone che si alza ogni volta che qualcuno avanza l’ipotesi di rifiutare la genitorialità; il chiacchiericcio che si scatena di fronte a un caso di abbandono ne sono solo alcuni esempi.

La ragazza di Milano meriterebbe discrezione e rispettoso silenzio per una scelta difficile ma consapevole. Le sue mani hanno dato una lezione sulla maternità. Tornando alle parole lette su Le mani della madre: una scelta d’amore è anche quella di saper lasciare andare; saper perdere e abbandonare i propri figli; saper “sacrificare ogni proprietà su di loro”. Anche nel gesto estremo dell’abbandono, per dare loro una possibilità di vita migliore.

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